Un tavolino, due sedie, qualche oggetto e due attori. Tutto qua. Questa l’essenziale messa in scena dello spettacolo La vita ha un dente d’oro, regia di Claudio Morganti, drammaturgia di Rita Frongia e con Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur in scena. Uno spettacolo che gioca sulle capacità espressive dei due attori che passano continuamente da un registro all’altro, da una “scenetta” all’altra, di-mostrando un’indubbia presenza scenica capace di riempire il non sense a cui ci si convince di assistere con lo scorrere del tempo.
I due giocano con delle carte, ma non come si gioca a carte, parlano diverse lingue (vere o inventate?), fanno immaginare la presenza di un cane sul palco, discutono e addirittura riflettono sul “fare teatro” e così via. Il passaggio da una sequenza all’altra, a volte, è impercettibile, altre, marcatamente espresso attraverso un assemblaggio drammaturgico, e registico, che cerca di tenere alta l’attenzione degli spettatori. Assistendo allo spettacolo non ci si chiede come possa andare a finire, ma, piuttosto: «dove vogliono andare a finire?» E, alla fine, sembra tutto un lungo provino, un esercizio di bravure attoriali, quasi un saggio di fine corso fatto però dai professori.
Viene da chiedermi: perché lo hanno fatto? Volutamente non ho letto la presentazione che ogni teatrante fa per giustificare il proprio lavoro. Penso che la spiegazione, il senso, debba risultare evidente sulla scena. Certo non l’hanno fatto per dimostrare quanto son bravi: troppo banale come spiegazione. Tutti i componenti della compagnia hanno buone esperienze e meritati riconoscimenti. Forse vogliono dirci che il teatro è solo un fatto di presenza scenica? Che non importa cosa significa o cosa vuol dire? Quello che importa è come lo fai, è tenere l’attenzione degli spettatori qui e ora, tutto il resto è un pretesto?
Non so, non mi convince. È vero che si arriva al termine della performance con spirito attivo e sorridenti, rimane però il dubbio di aver perso del tempo. Oppure di aver assistito a un’occasione mancata. Come se tutta quella sapienza teatrale fosse stata messa al servizio del nulla. Che, certo, adesso non son più i tempi del teatro dell’assurdo. Quello serviva a criticare un teatro borghese che pretendeva di dettare regole morali e di rappresentazione. Ci troviamo invece in un teatro di ricerca, dove, appunto, la “ricerca” dovrebbe “trovare” nuove vie e contro-regole per dare senso al fare teatro. Per fare in modo che il rapporto tra scena e platea non sia solo una circostanza ambientale, ma, soprattutto, una scelta esistenziale e politica. O forse anche il teatro di “ricerca” si è ormai “imborghesito”? E quindi questo spettacolo è un gesto di ribellione a un circuito che premia in sostanza mode e modi “contenutistici” di dubbia natura?
Forse è meglio dare un’occhiata al foglio di sala. Ecco come si autodefiniscono:
Uno spettacolo di archeologia teatrale.
Alle origini del gioco.
Laddove nasce la tradizione ormai perduta.
Il gusto ed il piacere della vera finzione. Quella autentica. Quella che privilegia il gioco e la santa idiozia. La fede nell’arte del fallimento.
Adesso ho capito. In effetti è uno spettacolo riuscito!!
P. S.
Ancora dal foglio di sala:
La vita ha un dente d’oro è un’antica espressione bulgara che non trova corrispondenza idiomatica nella nostra lingua. Oggi l’espressione non è più in uso ma pare venisse utilizzata per alludere al fatto che in tutto ciò che è vero c’è sempre un artifizio, una menzogna, un’alterazione d’organi. Ma è anche vero che le cose, a volte, sono proprio come sembrano.