Diavoli di Omini. La canicola risparmia Pistoia, al Deposito Rotabili Storici, dove s’attende la nuova performance del gruppo toscano che torna, come per Tappa e La famiglia Campione, a tradire (ossia traslare) in scena il risultato d’indagini e laboratori sul campo. Ambito ferroviario, stavolta, col Progetto T, per una serie d’iniziative previste sino al 2017. La rotaia: non potrebbe essere altrimenti, ché lo snodo pistoiese è stato fondamentale nella storia toscana e non, peculiare intreccio di linee (la Firenze-Viareggio, direzione mare, la transappenninica Porretta-Bologna, transito un tempo per la Leggera dei lavoratori) e sviluppo economico, per la vocazione industriale del centro urbano. Qui la Breda ha dispensati occupazione, possibilità e malanni, alla catena di montaggio d’un Novecento che per molti non fu breve. Qui gli Omini han passati mesi e mesi in stazione: complemento di stato in luogo, ma pure determinazione attitudinale. In osservazione e ascolto: hanno parlato, sentito, appuntato, trascritto, interloquito. Riso, di certo, e anche pianto.
S’aprono gli occhi tondi d’un locomotore, per una scena trapezoidale a cielo aperto, delimitata da vagoni d’epoca. Il vapore sbuffa. Tre sagome in ombra: cow boy, avanzano e son loro, gli allampanati Luca Zacchini e Francesco Rotelli, maschere serissime e dunque ridicolose, al fianco d’una non meno compunta Francesca Sarteanesi. Echeggiano, a bocca, il celebre tema di Il buono, il brutto e il cattivo: sfugge se la citazione abbia trinitaria declinazione rispetto agli altrettanti interpreti. Avanzano, e inizia una lettura: testo ad accumulo, voci alternate, umorismo. Un po’ Babilonia Teatri, e non è, per chi scrive, un complimento. Buio.
I tre ora più avanti, vicini all’esigua, ma ben stipata, platea.
Affiorano, come gusci di conchiglia nella spuma d’una risacca, lacerti di personaggi. Dialoghi smozzicati, come cicche aspirate in frett’e furia, subito cacciate a terra. Dialoghi che son monologhi, assoli di un’umanità affastellata come le carrozze dismesse dei convogli abbandonati: fuori luogo, fuori scena, fuori tutto. Fanno ridere, senza dubbi, lo “scemo” di Zacchini, accento simil-emiliano, lo spaesamento di certi formidabili màt di Jannacci, il ruvido toscano di Rotelli (altro bell’erede di un’attorialità regionale non regionalistica, che solo certi nani d’anni Novanta han quasi compromessa per diluizione), l’eclettismo di Sarteanesi, abilissima per cambi di ritmo e prospettiva. Affiorano, man mano, tre caratteri: intrecciano le voci, talvolta con quella fuori campo, quarto “attore” senza corpo. Parlano senza parlarsi: ognuno con la propria storia, come una confessione, come i morti d’una Spoon River in riva al qui prossimo piccolo Ombrone.
È un mondo sfarinato di desolazione, anzi disagio (dal titolo), quello della fallaciana (ricorda l’imitazione di Sabina Guzzanti, con più profondità) che rammenta la propria infelice vita sentimentale, o la struggente checca di Rotelli, recitazione gaia calibratissima nel tradurre e fondere miseria e umanità.
Emergono, dai convoglio, teste, sagome di piccione. Presenze mute e surreali. Scuotono la testa, al ritmo di Shock In My Town, il criptovisionario Battiato di fine millennio: figure apocalittiche, simbolo di qualcosa che sopravviverà, indifferente, a tutto. A queste storie, a queste strisce di ferro che attraversarono il Novecento, a tutti noi, idioti alfieri d’un mondo che si ritiene, a torto, immortale. Applausi convintissimi.