L’areoso cortile interno del Real Collegio, con il suo giardino curato, suddiviso esattamente in quattro parti da un candido stradellino è, senza dubbio, locus amoenus ideale per ambientare le eteree poesie (tratte dai cantici) di Juan de La Cruz. Vi si narrano il senso di smarrimento della sposa che perde lo sposo , la conseguente e continua ricerca, la gioia del ritrovamento finale e la felicità della rinnovata unione.
Per restituire la potenza della poesia carica di allegorie spirituali, il Laboratorio degli Archetipi opta per la parola fuori scena, declamata da un ragazzo e una ragazza su un lato del cortile. L’azione è, invece, affidata a sei attori, accompagnata dalla dolce melodia di un violinista seduto sul lato opposto ai lettori. La musica è cadenzata, continua, il violino canta per tutto lo spettacolo: le parole risuonano nello spazio, gli attori si muovono, danzano, cercando di ricreare con il gesto la visione poetica. I due danzatori incarnano lo sposo e la sposa, gli altri quattro rappresentano gli elementi naturali evocati nella narrazione: così, ecco gli sposi che si cercano affannosamente, ed ecco i performer prendere fronde a terra per simulare boschi, selve e via dicendo. Ciò a cui assistiamo è una sorta di pantomima gestuale delle parole: la carica espressiva della composizione di Jan de la Cruz non emerge sui tre piani citati (parola, azione, musica), che non s’incontrano, viaggiando inesorabilmente su strade parallele. L’incantevole melodia del violino risulta essere più che una semplice atmosfera sonora: sorprende e, con gentilezza, cattura l’attenzione, rendendo chiara la sproporzione dei tre livelli utilizzati dal lavoro ideato da Giacomo Camuri e Giannetta Musitelli.