È ossessione novecentesca che tracima nel vaso comunicante del Terzo Millennio quella di non sapersi, eppur volersi, scrollare di dosso l’eredità del principe danese più noto e abusato nella storia del teatro. Eredità ottocentesca incrostata di pose e teschi filologicamente fuori posto, tanto da giustificarne una messe di approcci drammaturgici e performativi (dalle stanchezze di Bacchelli alle nevrosi in maschera dei recenti tentativi di Manfredini) alla quale il malmostoso Amleto avrebbe buon gioco a sottrarsi con un “Morire, dormire…magari!”. Potrebbe, allora, risultare opportuno, e perfino saggio, sondarne i temi senza scomodarlo, addirittura senza invitarlo sulla scena (sulla scia di Bene) o seguendolo a distanza, magari perdendolo di vista fra i recessi di Elsinore, fino a lasciarlo riapparire sotto la maschera di Totò (come fece il compianto Leo de Berardinis).
Par esser questa l’istanza che mosse la penna di Giovanni Guerrieri, appena lasciatosi alle spalle il Novecento, nel cucire la iuta dei suoi Sacchi di Sabbia con il filo logico (di un logos letteralmente discorso) di Amleto: ma, uscendo da ghiotte malìe foniche, di filologia non c’è traccia in questo Grosso guaio, se non per un pedinamento della trama condotto a debita distanza, quasi per non suscitare i malumori del sospettoso prence.
Ma a chi affidare il compito di scandagliare le tensioni carsicamente affioranti ai margini di un testo che tutti (non) conosciamo? A chi affidare l’incarico di stargli non alle calcagna, bensì alle costole, procedendo dunque a fianco della trama, in parallelo?
Dilemma ‒ concedetecelo ‒ davvero amletico, a cui i Sacchi, tosco-napoletani per impianto della compagine e attitudine al ghigno, rispondono convocando in scena due strampalati clown malavitosi, il toscano Marco Azzurrini e il campano Enzo Illiano.
Stralunato e pasticcione il primo, sicumera da ‘uapp ‘e cartone l’altro, entrambi in camicia bianca e pantaloni scuri ‒ look da camerieri, si direbbe ‒ servono un’involontaria confessione a una corte invisibile (idealmente collocata nell’uditorio), tentando maldestri di convincere chi conduce l’interrogatorio della loro estraneità ai fatti.
Ma quali fatti? Nel vano tentativo di negare l’omicidio di Rinaldo in terra di Francia, ci spiattellano, dopo sollazzevoli indugi, la loro affiliazione a un’organizzazione “di stampo camorristico” ‒ tiene a precisare il buffo Azzurrini, una volta persi i freni ‒ per conto della quale si trovano al centro di un intrigo internazionale che vede coinvolti Laerte, i norvegesi Fortebraccio padre e figlio, Polonio, insomma, tutte le personae secondarie e laterali all’Amleto shakespeariano.
La loro affabulante ricostruzione dei fatti ripercorre, pedissequa ed eretica, lo sviluppo della vicenda tradizionale, procedendo per scene intervallate da dissolvenze luministiche non sempre in sincrono con le musiche (peccato!), ma esilaranti e inedite, tanto da far dubitare dei buoni e riscattare il “povero” Claudio che, complici apparizioni spettrali improbabili, il napoletano sceglie di proteggere. Lo spettacolo, definito “non comico” nel prologo (con scaltra captatio benevolentiae), fila per un’ora come un treno su binari ben lubrificati di dialoghi calibrati e monologhi irresistibili, fino alla fucilazione finale. La sala del Lux, al massimo della capienza, non può che simpatizzare in un applauso prima di correre a casa a rileggersi il Bardo.