Programmato in coda alla stagione passata, Vita di Galileo, testo di Bertolt Brecht nella rilettura/riscrittura di Gabriele Lavia, s’è visto congelare per mesi e indi ricollocato da prima 2015/16 nel cartellone d’una Pergola assurta a Teatro Nazionale. Dettaglio di per sé bastevole a giustificar l’attesa, ancor più corroborata da indiscrezioni sugli aspetti produttivi (ventisei attori – qui si dice ventotto – oltre ottanta personaggi) e dalle parole dell’artista (“Con questo spettacolo saldo il conto con la mia vita di teatrante”) cui le musiche originali di Hanns Eisler (sì, l’autore dell’inno della DDR) e la delicatezza del tema (il rapporto tra scienza, religione ed etica) s’aggiungono a tracciar i contorni d’un autentico kolossal scenico.
Lavia prende di petto il testo da protagonista: è lui un Galileo appassionato e mutevole, loico e loquace, magnetico e, solo in apparenza, contraddittorio, che s’agita e consuma in una parabola esistenziale e intellettuale. L’evocativo ambiente di Alessandro Camera, ampio e declinabile secondo necessità in sgombro interno (belle le nere, imponenti lavagne vergate dal gesso delle formule), piazza per scene corali, curiale salone capitolino, avvolge la vicenda dello scienziato, come un cosmo orbitante attorno al suo più splendido corpo celeste.
Gli snodi della drammaturgia brechtiana sono rispettati sin troppo pedissequamente, col massiccio impiego d’un cast “infinito”: difficile rilevare il peculiare contributo dei singoli. Citiamo Woody Neri (lo conosciamo: l’abbiamo “cercato” nelle molteplici sequenze, come a fissare i dipinti tromp-l’oeil, per la scelta d’affidare più ruoli a ogni attore) che stupisce non solo per le smaglianti interpretazioni, ma per doti coreutiche e canore sin qui ignote (notevole l’apporto dei musicisti in scena), così come la Virginia (figlia del protagonista: curiosa ridondanza) di Lucia Lavia, più convincente rispetto alle prove in cui la ricordiamo. Al contempo, s’ha l’impressione d’un impianto assestato, ai limiti dell’incartamento, sulla dicotomia Lui-Mondo, pure nei registri: a una recitazione vieppiù muscolare, “gridata”, dei comprimari, risponde la polifonica sinuosità dell’esecuzione grandattorica laviana, flautata, intensa, vagamente gigiona, stuzzicando il pubblico al riso nei sintagmi marcatamente umoristici.
È l’asse portante del testo a rovesciarsi (involontariamente?) nel taglio registico: difficile immaginare un Galileo tanto tolemaico, magnetico sole e immobile motore in ogni parte del costrutto, al punto che, nelle rare sequenze in cui il protagonista è fuori scena, il ritmo segna inevitabili arresti (esclusa la massiva sequenza che cita, non scherziamo, Pirati dei Caraibi). Qui si consuma l’intima aporia del lavoro, criticabile non per lo “spreco” di risorse (il teatro è sperpero), non per le quattro e passa ore (non disdegnamo la lunga durata, se giustificabile), ma per la parziale, parzialissima riuscita, nonostante le indubbie qualità (visive soprattutto) di un’opera composita.
È come se Lavia, nella posizione giustificabile di “grande maestro”, non abbia chi gli faccia (un doveroso) attrito creativo, per poi tracimare a danno del profitto che sarebbe lecito attendersi. Se si pensa al tenore didascalico della scrittura brechtiana, è a dir poco temerario immaginarsi la possibilità di cumularvi ulteriori postille (la coda della recita deroga sin troppo dall’originale) in chiave illustrativa. E, invece, lui parla, parla e riparla, senza di fatto offrire novità rispetto alla sorgente. C’entra poco, a parer nostro, il trionfo dell’attore, specialmente perché qui va a incastonarsi in una drammaturgia che avrebbe tutt’altro fine. Si può scrivere su, riscrivere, lavorare per gemmazione, ma il risultato ha da parametrarsi al cimento e, in sincerità, non ci pare questo il caso.
Il pubblico, sensibilmente provato dallo sforzo richiesto e dall’eccepibile scelta d’iniziare alle 20.45 (con odioso slittamento accademico di venti minuti), si produce in un lauto battimani, ma il dubbio è che dopo un tale investimento di tempo e denaro (non è che regalassero i biglietti), la manifesta soddisfazione sia un “autorisarcimento”, come quando s’apprezza un vino costoso solo perché qualcuno assicura che è ottimo.
Da rivedere; anzi no: non ce la faremmo.