Il grande dittatore, regia di Giuseppe Marini e Massimo Venturiello.
Non possiamo, ovviamente, accingerci a criticare questa commedia musicale (il primo adattamento scenico del film) senza far riferimento al capolavoro cui essa, più che ispirarsi, si aggrappa disperatamente. Uscito nel 1940 (in Italia solo dal 1946), si tratta del primo film sonoro di Charlie Chaplin e, soprattutto, il primo in cui Charlot pare scomparire, quasi divorato dall’immersione nella storia, nella realtà, per lasciare il passo a un Chaplin-personaggio, ora barbiere ebreo ora dittatore ridicolo: la comicità si fa satirica, la parola diviene veicolo per esprimere una morale che vorrebbe (o dovrebbe) essere popolare. Chaplin, nel celebre discorso a conclusione del magnifico film, si appella all’intera umanità con parole che, ancora oggi, non possono che commuoverci.
Ribadiamo un punto fondamentale: 1940.
Che cosa, a 75 anni di distanza, può spingere ad allestire uno spettacolo teatrale a partire da una fonte simile?
Il film è, in un certo senso, figlio del proprio tempo e gran parte del suo valore dipende da questo; ne consegue che un lavoro basato su un’analoga operazione, privo però di originalità, rischia quantomeno di risultare anacronistico. La comicità di Chaplin, che è il motore stesso delle sue opere, risulta qui fuori luogo, quasi fastidiosa.
I dialoghi e le scene (con gli opportuni tagli, certo) sono quasi identici a quelli del film o, meglio, del suo doppiaggio italiano, dal quale si attinge anche la marcata inflessione dialettale di Mussolini/Napoloni. La rappresentazione cui assistiamo, nel 2015, risulta banale nel suo svilito moralismo. Fin troppo semplice, forse, appellarsi alla concezione per cui “un capolavoro è sempre attuale”, ben più complesso essere capaci di adattare un passato ormai lontano (non ignoriamo tuttavia la vetusta età media del pubblico incontrato al Giglio) a un presente che, se anche ne condivide molto, non vi si può riconoscere totalmente.
La debolezza dell’operazione, insomma, ci pare essere una scrittura troppo semplice, con la pura volontà di dar corpo ai personaggi della pellicola, senza considerare la complessa e inevitabile lontananza tra cinema e teatro.
Anche dal punto di vista musicale, gli attori-cantanti, in genere ben preparati, intonano melodie d’ispirazione klezmer, ma raramente, pur essendoci numerosi momenti corali, si incorre in fenomeni di polifonia: i testi paiono privi di profondità, le voci, amplificate, apprezzabili.
Non vorremmo sembrare disfattisti e teniamo a evidenziare anche i pregi di una rappresentazione che, tutto sommato, può risultare gradevole (ne sono la prova i copiosi applausi). Citiamo almeno, per la considerevole abilità vocale e non, Lalo Cibelli, che interpreta Napoloni/Mussolini con particolare verve, e Tosca, i cui fin troppo lamentevoli momenti solistici potrebbero tuttavia essere reputati ammirevoli.
La scenografia è suggestiva, perfettamente adattata ai diversi momenti dello spettacolo: un edificio di due piani si erge sul palco, al livello superiore vi è l’abitazione di Hannah e a quello inferiore la bottega del barbiere; eppure, la struttura, ruotando, diviene sia il palazzo sia il pulpito da cui Hynkel il tiranno tiene le proprie orazioni, in una lingua mista di suoni gutturali e parole italiane appena accennate (stentato adattamento della lingua del dittatore di Chaplin). Gli attori si muovono disinvolti e precisi, capaci di dar vita alla grande costruzione che occupa il palco, in modo da creare i presupposti per cui la bottega di un barbiere possa trasformarsi, in pochi secondi, nel palazzo di un dittatore, fino a divenire un’enorme svastica.
Poco entusiasmati usciamo dunque dalla sala e scriviamo una recensione povera di emozione.