Dicembre, mese di premi e vacanze per il teatro italiano, entrambe cose che continuano a convincerci poco. Arriviamo in un Toniolo addobbato a festa (è domenica, giorno da spettatori agé) assai incuriositi, sia per l’incontro con la compagnia moderato qualche giorno prima a Pisa sia perché tradurre in scena un romanzo come quello di Bulgakov ci pare sfida impossibile; e dunque da tentare. Di Andrea Baracco ricordiamo con piacere un Giulio Cesare visto anni fa, sempre sotto la torre pendente: deformazione (non) professionale, ma più di qualcosa ritroviamo nelle tonalità cupe di questa scenografia unica, ampio spazio contornato di pareti/lavagne, con porte e praticabili che spuntano alla bisogna.
Le tre linee narrative del volume sono quindi affidate alle parole e ai movimenti degli attori: l’arrivo del faustiano Woland nella burocratizzata Mosca sovietica, la vicenda di Ponzio Pilato, l’amore tra lo scrittore caduto in disgrazia e la sposa infelice destinata a farsi strega per mefistofelico incantamento. La riscrittura di Letizia Russo presenta scelte connotate: la Dramaturg rinuncia, spiazzandoci, alla scena del Varieté che domina il primo libro (ci saremmo aspettati un trionfo da Grandguignol) così come ad altre sequenze teoricamente stimolanti per la traslazione, ma forse troppo dispendiose in termini di equilibri scenici. Nondimeno, la cadenza e gli accenti sono fedeli a quelli del romanzo, in una partitura articolata e vivace, ove gli oltre cento caratteri dell’originale vengono ridistribuiti tra undici interpreti grazie ad accoppiamenti calzanti (il poeta Ivan e Gesù, il Maestro e Pilato…) e, in generale, un ritmo brioso, che mai perde tensione o appesantisce le quasi tre ore di recita.
Testo e squadra a disposizione Baracco sono strumenti ideali per chi intende il teatro come Gioco: non v’è bisogno, infatti, di effetti speciali per riprodurre il tuffo in un fiume − una corda vibrata a mezz’aria simula il pelo d’acqua, vecchio esercizio di Nekrošius ben conosciuto dal regista laziale − o la decapitazione di Berliotz investito da un tram − con tre riflettori dal fondo come luci del locomotore. La scena non può che sfruttare l’evocazione, riuscendo a sortire effetti potenti se si hanno buone idee e un eterogeneo gruppo d’attori, tanto diversi tra loro da sembrare un’orchestra capace di misurarsi con qualsiasi spartito: citiamo la sinuosa fisicità di Alessandro Pezzali, il cristologico Oskar Winiarski, il corpacciuto felino di Giordano Agrusta, oltre ai protagonisti.
Michele Riondino è un demone ghignante dalle movenze mutevoli, carattere quasi “facile”, tante le infinite piegature recate in pegno a un attore dalle grandi risorse; non da meno, anzi, la Margherita di Federica Rosellini: prima, silente ed eterea presenza aleggiante nel racconto del Maestro (il centrato Francesco Bonomo), poi, ferina creatura diabolica, interprete di un’estenuante sequenza in nudo integrale seduta su un’altalena che fende il quadro scenico (potrebbe farlo ancor più vigorosamente). Soluzioni apparentemente semplici, ma ingegnose e a loro modo sorprendenti, per un lavoro che, nonostante la lunghezza, ci pare un ottimo compromesso scespiriano, da teatro autenticamente polifonico, in grado di offrirsi a ogni tipo di spettatore senza rinunciare a una pregevole cura e alle proprie specificità espressive.
Applausi convinti, sulle note finali (queste non sorprendenti, ma va bene lo stesso) di Sympathy for the Devil: in periodo natalizio, ricordarci la necessità umana, troppo umana del Male, proprio in virtù di quel che vorremmo pensare come Bene, ci pare un regalo più che auspicabile.