Al Teatro Verdi di Pisa si inaugura la stagione lirica 2015/2016 con Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, opera di ambientazione genovese, ma con frequenti riferimenti alla città della torre pendente. Giuseppe Toscano, presidente della Fondazione Teatro di Pisa, saluta il suo pubblico, tracciando un breve bilancio: cala il contributo del FUS, ma sale il numero degli abbonati. Dopo questo breve momento, sale sul podio il Maestro Ivo Lipanović, per dare il via al prologo: l’opera è lunga, se non si comincia ci si fa notte.
Verdi compose la prima versione nel 1857, per poi riprenderla nel 1881, ma senza mai essere del tutto convinto della musica e, soprattutto, della trama. Arrendetevi: la storia è incomprensibile. Se anche la comprendeste non avrebbe senso. Metà degli avvenimenti avvengono fuori scena e i personaggi cambiano nome: non solo per complicarci la vita, ma anche per diventare magicamente irriconoscibili. Colpo di genio: la figlia di Simone si chiama Maria, come la donna che l’ha partorita. La prima, però, la conosciamo come Amelia, la seconda muore subito. Il libretto è stato scritto da Francesco Maria Piave, ripreso da Arrigo Boito e sicuramente ci hanno messo le mani Giuseppe Montanelli e Verdi stesso. O erano tutti ubriachi, cari lettori, oppure il sospetto che state avendo in questo momento è fondato: ci stanno prendendo tutti per il culo.
Ciò detto, è d’uopo compensar tali sconcerie con un poco di finezza: s’appressa l’ora di favellar di Lorenzo Maria Mucci. La sua regia è, invero, normale assai. Ambientazione in una Genova astratta, di fasciame navale e pietra di palazzo, a rappresentare il conflitto tra popolo e patrizi: filone politico che qui contende la narrazione a quello tipicamente romantico. Il mare è l’elemento onnipresente in scena come nel cuore del Doge Boccanegra (nel blu diffuso, una discreta somiglianza con Odyssey di Bob Wilson, appena recensito). Il fondale, dipinto dalle luci, è il cielo che si confonde con il mare, spesso soffocato dalle mura dei palazzi: quando, invece, è sgombro, come durante l’aria di Amelia, si mostra in tutta la sua sconfinata ambiguità.
Opera di baritoni e bassi. Tenore e soprano (Gabriele Adorno e Amelia Grimaldi/Maria Boccanegra) hanno la loro storia d’amore e sono tenuti da parte: nessuno li contrasta, si amano, si sposeranno; cantano poco. Il centro della vicenda si svolge tra il baritono Simon Boccanegra e il basso Jacopo Fiesco: il primo morrà, ma solo dopo la riconciliazione fra i due, per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare. Ci preme notare, però, come il canto di Fiesco, granitico e profondo per tutta l’opera, salga nella parte acuta del registro di basso, quasi ad avvicinarsi alla vocalità dell’eterno rivale. Elia Fabbian è un protagonista convincente e vigoroso, costretto a cantare per entrambe le recite, a causa del collega del primo cast infortunatosi durante le prove. Ottima prova anche per il Fiesco di Andrea Concetti e per l’adamantina e vibrante voce di Ilona Mataradze. L’Orchestra della Toscana è vivace e reattiva alla bacchetta del M° Lipanović: si sente il mare, fantasma ricorrente nella partitura. Una nota positiva anche per il coro, sennò ci resta male.
Al di là delle facili ironie: l’opera è ostica, ma davvero apprezzabile. Se per un periodo la critica l’ha snobbata, privilegiando altri titoli della produzione verdiana, da qualche decennio Simon Boccanegra è, giustamente, una presenza stabile nel repertorio. Non convinceva il compositore, certo: ma quando mai Beppino si è detto davvero soddisfatto del proprio lavoro? Questa produzione è, peraltro, validissima e andrà in scena a fine novembre a Livorno e, a gennaio, a Lucca. Chi scrive potrebbe considerare l’idea di assistervi di nuovo; sicuramente un altro arlecchino ne scriverà. L’ultimo apprezzamento sincero va ai programmi di sala del Teatro Verdi: non solo perché sono (ben) curati da Maria Valeria Della Mea, addetta stampa del teatro e amica di LSDA, ma soprattutto per il piacere di leggere i brevi saggi del direttore artistico per le attività musicali Marcello Lippi. No, gli ultimi fallimenti calcistici non l’hanno spinto alla carriera musicologica: è un omonimo, e chi scrive ne capisce la triste condizione.