Canto e controcanto. Edipo/Pippo Delbono in dialettica con Antigone/Petra Magoni, dall’inconfondibile vocalità (suo personale marchio di fabbrica), quasi un superbo volo d’aquila a planare verso il basso incidendo sulle prede, con sicurezza chirurgica, passionalità e lirismo, le note di un repertorio vastissimo. Sangue non è un puro reading teatrale né un’esibizione musicale. Presentato dallo stesso Delbono con la formula anfibia di spettacolo-concerto, sembra più un primo studio, una pièce che è, ancora, una ferita aperta e bruciante.
L’andamento è binario: dalle letture dei versi edipici dell’attore si passa alle canzoni della cantante, un continuo botta e risposta in cui, nel finale, s’inerisce Bobò, l’ormai celebre performer sordomuto rimasto, sino a quel momento, ascoltatore e osservatore ai margini del palcoscenico. È la musicista Ilaria Fantin, circondata da un liuto, un opharion (strumento inglese del XVI secolo), un oud e da un’inaspettata chitarra elettrica, a punteggiare musicalmente il lavoro.
Dall’Hallelujah di Leonard Cohen alle versificazioni madrigalistiche, passando per l’Amara terra mia portata al successo da Modugno a Nothing Compares to you di Sinead O’Connor, sino al finale con Disamistade di De André, il repertorio di questa Antigone contemporanea. Canta l’oppresso, l’emarginato, l’esule, la guerra, l’odio, l’amore, la vita e la morte. Il mito dell’Edipo sofocleo è punto di partenza per una riflessione sui grandi temi esistenziali. «Solo colui che ha attraversato indenne il confine della vita, solo quell’uomo puoi chiamare felice», dice Sofocle del suo Edipo assassino, orfano, esule, che deve fare i conti con la condizione dello sradicamento, in una società, come quella contemporanea, in cui ormai tutti sono apolidi nella loro stessa patria.
Sangue nasce sulle ceneri di un altro progetto, irrealizzato, che avrebbe dovuto chiamarsi Birds. Delbono vi allude nelle molte parentesi monologiche, entrando e uscendo dal filo drammaturgico tracciato. Non Edipo, ma Gli uccelli di Aristofane sarebbe stata la fonte che avrebbe dovuto portare la firma di Eimuntas Nekrosius; il forfait dell’Antigone Laurie Anderson, dopo la morte del marito Lou Reed, ha stravolto i piani.
Si resta allora con Sangue, lavoro troppo confuso: lo spettatore vede l’enorme spazio vuoto del Metastasio, al centro, Delbono, alla destra, Magoni, inchiodati alle rispettive sedute per una stasi protratta, sottolineatura della condizione di un Edipo e un’Antigone ingabbiati nelle proprie sofferenze. Tale crocifissione laica rende lo spettacolo inerte, senza avere il giusto contraltare in un piano sonoro costruito per opposizione alla povertà di movimento, sia interiore sia esteriore. Delbono legge, sguardo incollato sul leggio, una recitazione intima più che intimista. Voce e musiche viaggiano superbamente, grazie all’interessante attrito tra la voce scura dell’attore che contrasta coi folli voli argentini della Magoni: trascorrono nel tempo, grazie all’attenta scelta di repertorio attraverso secoli di musica, ma si tratta di un’erranza straniante, un perdersi fra citazioni, riferimenti interni che non offrono una visione, ma disorientano lo spettatore.
Chi è questo Edipo dei giorni nostri del quale si narra e si canta? Che forza hanno le parole sofoclee decontestualizzate dal loro habitat naturale? Troppo criptiche le tappe di un percorso incompiuto, le stazioni di una crocifissione impossibili da cogliere: regia e drammaturgia non sanno consegnare allo spettatore la chiave di lettura di un percorso ancora fermo a metà strada, offuscato, probabilmente, dai cambiamenti forzati e dalle trasformazioni repentine cui è stato sottoposto.