Masticare carote è una delle cose più faticose che esistano. Ancor peggiore è la giornata del sabato: totalmente persa per vestirsi, uscire e fare compere.
Insindacabili le osservazioni avanzate dal protagonista di Il nullafacente, nuova produzione della Fondazione Teatro della Toscana, fresca di debutto in casa pontederese. Si conferma il sodalizio Bacci-Santeramo (ricordiamo Alla luce, due stagioni fa) che ora vede il drammaturgo nei panni del protagonista della piéce, quando le espressioni “calzar a pennello” o “scritto su misura” risultan quasi futili.
La storia può sembrare, in apparenza, banale, scontata a tal punto da poter riflettere, come fa il personaggio stesso, sull’assurdità di aver comperato i biglietti in prima fila per vedere “uno che non fa niente”. In verità, gli spettatori del Teatro Studio Mila Pieralli hanno l’opportunità di osservare, sì, un nullafacente, ma pure l’intero complesso familiare costretto a vivere con una persona che non li deluderà mai, perché non farà mai nulla.
La storia è incentrata sull’unica donna in scena (Silvia Pasello), malata terminale, moglie di un uomo che è nato per fare il meno possibile, al punto tale da non prestarle neppure soccorso in seguito a una caduta. Altri personaggi si affacciano sulla vita coniugale: il fratello (Francesco Puleo), umile, semplice, perennemente infervorato dell’inanità del cognato; il vecchio medico di lei (Tazio Torrini), deluso dall’abbandono delle cure da parte dell’assistita; il proprietario della casa (Michele Cipriani) in cui due coniugi sono in affitto, crucciato per le mensilità arretrate.
La scenografia si compone di due quinte nere perpendicolari non congiunte, a lasciare uno spiraglio per l’ingresso e l’uscita di alcuni oggetti di scena. Parallelo alla quinta di sinistra, un nudo tavolo in legno con sopra adagiata una pianta bonsai; dall’altra parte, una poltrona. Nient’altro: il nero riempe la scena che a sua volta è colorata da luci soffuse (sottolineate diegeticamente da una bolletta non pagata). Dal lato dello spettatore sono collocate cinque sedie dove i performer vanno a sedersi una volta fuoriesciti dalla casa, come se anche loro assistessero al normale iter della vita, che scorre senza far niente.
La regia di Bacci mira a preservare il testo drammaturgico sotto una teca di vetro, concentrandosi principalmente sui movimenti e gli spostamenti degli attori. La recitazione di Santeramo ci sembra la più convincente, la più reale: per niente accademica, pare aderire in tutto e per tutto alle parole e ai discorsi pronunciati. Gli altri personaggi sembrano leggermente impostati, dando l’idea di una ricerca stilistica che affonda le radici in una certa maniera di fare teatro, ma che in uno spettacolo come questo perde un po’ in veridicità. Santeramo è convinto nel proprio ruolo di fannullone confesso, gli unici dubbi che ha li rivolge alla sua piccola pianta bonsai, che diviene guida spirituale durante piccoli cedimenti.
Ci si interroga sulla vita, sui continui compromessi che si fanno per viverla, sulla ricerca di adattamento, perché, in fondo, questa altro non è che un gioco a sopravvivere. È bello uscire dal teatro con molti dubbi sulla propria esistenza, sulle proprie condizioni di vita imprigionate in un sistema per il quale si lavora per ottenere dei soldi, la cui vera funzione è la possibilità di non avere paura. Un testo molto interessante per una performance agita che resta flebile come la sua luce in scena.