I duellanti, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Joseph Conrad, fu nel 1977 opera prima di Ridley Scott sul grande schermo, protagonisti Keith Carradine e Harvey Keitel. Recentemente, segna il debutto registico di Alessio Boni che, con Roberto Aldorasi, ne dirige l’adattamento originale curato da Francesco Niccolini. Il genio di Conrad, con questo romanzo d’ambientazione francese e napoleonica, coniuga vicende autobiografiche a uno dei suoi temi più cari all’autore: l’indagine psicologica, pre-psicanalitica, sull’uomo.
Lo spettatore si ritrova avvolto nella penombra, un’oscurità dal forte valore metaforico, elemento ricorrente nell’immaginario conradiano. Svettano in scena due torrioni praticabili e una pedana, che potrebbe essere il covo di uno dei due protagonisti. Al centro della questione, il tema del doppio, in un eterno duello fra due poli opposti, bianco e nero, che coinvolge attori di formazione analoga (il “metodo Costa”): Boni si cala nei panni del damerino Armand d’Hubert, un aristocratico annoiato dall’ipocrisia circostante, calcolatore, cinico, avveduto; Marcello Prayer in quelli di Gabriel Feraud, intraprendente di umili origini, spaccone sanguigno, ma con uno spiccato senso della dignità. «Mi hai costretto per un punto d’onore a tenere la mia vita a disposizione per 15 anni», così il primo al rivale, nel compimento di un eterno confronto che attraversa l’intera epoca napoleonica, agitata da sogni di conquista imperiali, sino agli anni disillusi della Restaurazione. I due interpreti rivelano l’origine costiana in una lunga, vigorosa scena, cerniera drammaturgica fra l’ardore della giovinezza e il disincanto della maturità: sostenuti da un serrato commento musicale, raccontano l’inferno della campagna di Russia, sfruttando al massimo, con notevole intensità, il potere del coro, l’unisono delle voci che, ricorrendosi, sovrapponendosi e fondendosi l’una sull’altra, traggono forza. Due voci che si fanno una sola, di pari passo ai personaggi progressivamente confusi, appaiati come rovesci di un’unica medaglia, come se Feraud fosse il Minotauro che scorre nelle viscere di un d’Hubert annoiato, in continua ricerca d’emozioni autentiche, con un disperato bisogno d’istintività e passionalità. In realtà, il duello di Conrad messo in scena da Alessio Boni si configura come l’eterna lotta di un uomo contro sé stesso.
Allestimento apprezzabile, con qualche limite per chi ricerca una teatralità pura e non una mescolanza di codici espressivi essenzialmente strumentale a centrare il risultato, a salvare il tutto. S’avverte sensibilmente l’origine letteraria della fonte: a tratti, la drammaturgia diventa narrativa, didascalica oppure denota un lavoro di asciugatura dal quale emergono dialoghi prossimi più al linguaggio cinematografico che a quello teatrale, legati all’effetto, al ritmo, più che all’introspezione dei caratteri, alla creazione di un equilibrio e un peso, un ritmo interno, un baricentro, nel susseguirsi degli episodi. La voce degli attori, microfonata, acuisce l’impressione di codici espressivi più filmici che teatrali, così come l’impiego delle luci di Giuseppe Filipponio, con qualche eccesso di stroboscopia da kolossal nelle scene di battaglia. Pregevole il commento musicale, che non aggiunge niente all’azione, ma l’accompagna; la gradevolezza dalla colonna sonora è da ascrivere al violoncello di Federica Vecchio, che incarna l’affascinante Adèle, Madame de Lione e la fidanzata di d’Hubert. Lodevole pure la prova dell’infaticabile Francesco Meoni, chiamato a rivestire ben cinque ruoli: il colonnello Marchand, lo zio di Adèle, il potente Fouchè, un soldato e un giadiniere, come anche la ricerca della verosomiglianza nei combattimenti, con i duellanti Boni e Prayer resi credibili dalle curate coreografie di Renzo Musumeci Greco.