Il palco è spoglio, pochi oggetti; una luce discreta, dalle tonalità ocra, illumina una valigia rigida di molti anni fa e una tela bianca. L’attrice entra indossando un abito bianco lungo, al collo un piccolo specchio.
Elisabetta Salvatori porta in scena un lavoro ispirato alla vita del pittore Antonio Ligabue. Si tratta di uno spettacolo di narrazione: la performer passa dal racconto in terza persona ad alcuni primi piani interiori volti a penetrare l’anima tormentata dell’artista. Nei momenti di introspezione, la voce si fa acuta e, sostenuta dall’accento emiliano, l’attrice compie la sua personale metamorfosi. Il pittore era solito andare in giro con uno specchio appeso al collo, talvolta riflettendosi per spalancare la bocca ed emettere orribili suoni gutturali, simili a ruggiti. L’attrice propone il rito più volte interrompendo il flusso della narrazione. La tela al centro della scena non rimarrà bianca: più volte la raccont-attrice si avvicina, dipinge qualcosa, ma solo alla fine dello spettacolo sarà chiaro di cosa si tratta.
La storia desolante di un uomo solo, tradito e abbandonato da tutti, che trova la propria personale umanità nel rapporto con gli animali e con la natura, viene narrata con pacatezza; l’attrice non scivola mai verso tonalità patetiche. Nella prima parte la Salvatori ri-vive la nascita (il parto) del pittore: si accascia morbidamente sulle assi del palco, senza un’intenzione meramente realistica; non illustra il dolore fisico, bensì un dolore altro, come se non stesse mettendo al mondo un figlio, ma una solitudine troppo desolante. Più avanti l’attrice culla un bambino immaginario (e sé stessa), dondolandosi seduta sulla valigia: qui, più ancora che nel racconto, si schiude tutta la struggente nostalgia di madre che caratterizzerà la vita di Antonio.
L’infanzia, povera e solitaria, del futuro artista è resa attraverso frammenti; lo stesso avviene per il passaggio dalla madre naturale a quella adottiva. Nella seconda parte troviamo Ligabue in Emilia, emarginato, in una baracca, a scaldarsi con la paglia e con gli animali vivi che lo accompagnano. È in questa sequenza che Salvatori rende al meglio, fisicamente, l’infinito desiderio dell’artista: desiderio di donna, di carne, di calore e di madre. Una corporeità a tratti languida e l’uso attento della voce (dal canto al ruggito) conducono il pubblico all’interno di una vita terribile e toccante, priva di gesti d’amore e di tenerezze.
Quando, inaspettato, il successo arride al pittore ormai è tardi; Ligabue è un esiliato, incapace di vivere seguendo le regole della società, incapace di risparmiare; la solitudine è cronica, nessuna donna gli si concede, nemmeno le prostitute lo vogliono. Una frase illumina più di altre il senso profondo della vita del pittore e dello stesso lavoro della Salvatori: “Non aveva mai posseduto nulla, aveva solo la sua memoria”. La memoria, ancora e vela allo stesso tempo; bussola e cielo stellato.
Attraverso il racconto si fa strada una sorta di pietas, il ruggito si fa qualcosa di diverso dal richiamo bestiale dell’inizio; la voce della Salvatori si sostituisce alla madre e alla donna che il pittore non stringerà mai, in un abbraccio a distanza, sensuale e salvifico. Lo spettacolo si chiude con il funerale di Antonio, il suono di una banda accompagna l’attrice che esce di scena gridando con gioia frasi in dialetto emiliano: un crescendo emozionante e toccante. L’anima tormentata del pittore è salva, la porta via con sé la donna in bianco, la donna che porta il nome di sua madre, la donna che gli ha restituito la voce. Sulla tela ormai è perfettamente riconoscibile il muso di una tigre che spalanca le fauci.