È una casa affogata nel bianco quella portata in scena da Roberto Bacci. Sopravvive il ricordo di un’antica grandezza dissolta e annullata in un mare di petali di ciliegio caduti. Il palco è vuoto, il sipario già aperto. Una lunga pedana attraversa parte della platea. È maggio, i ciliegi sono in fiore, la famiglia non è ancora tornata. Un personaggio compare sulla scena, Epichodov (Radu Largeanu), cerca, fruga nelle tasche, estrae una pistola e si tranquillizza. Dietro di lui, su un fondale mosso da lunghe strisce di tessuto simile ad organza bianca, si fanno avanti Duniaša (Patricia Brad) e Lopachin (Sorin Leoveanu): il testo di Cechov prende forma.
La famiglia si riversa in scena attraversando la platea, il giardino. Le valigie, l’euforia del ritorno a casa dopo tanto tempo, il baccano dei saluti, la malinconia sanata dal rincontrarsi trascinano lo spettatore tra i corridoi, nella stanza dei bambini, nei ricordi di una vita vissuta senza preoccupazioni. La scena si popola, si anima, si riempie di valige. È tutto incredibilmente dinamico e per l’intera durata dello spettacolo il palco rimane costantemente vivo, mosso da azioni che fanno da cornice a quella principale.
Se in Strehler il giardino, pittato di foglie cadute, era come sospeso sopra la testa degli attori e in Brook si trovava idealmente alle spalle del pubblico, quello di Bacci è rappresentato dagli stessi spettatori, tra i quali si muove, poggiando i piedi su poltrone occupate della platea, la stessa Ljubov’ Andreevna (Ramona Dumitrean) appena tornata da Parigi.
Il testo di Cechov, sotto le mani del drammaturgo Stefano Geraci, si alleggerisce e arricchisce allo stesso tempo, trovando un ritmo capace di dare spessore a ogni personaggio. Si delineano le coppie e i rapporti che intercorrono, si sviluppano i legami, anche quelli solo suggeriti dal testo originale: primo tra tutti, tra Ljuba e Lopachin. Bacci porta in scena una Ljuba differente, sorta di bambina antica, i piedi sospesi in aria, ma le mani completamente affondate in una realtà da cui coscientemente decide di prendere le distanze. Una figura resa ancora più intensa dall’inaspettata quanto intangibile tenerezza che la lega a un Lopachin, approfondito e reso in tutte le sue debolezze più nascoste.
Ma se la proprietaria riesce ad essere così reale nel suo essere eterea, lo stesso non si può dire della figlia maggiore Varia (Anca Hanu) e la minore diciassettenne Anja (Alexandra Tarce). Unico neo del lavoro, forse, la resa di queste due figure, più caricate rispetto al testo: se in Anja l’euforia troppo manifesta è giustificata dall’intenzione di renderne credibile l’adolescenza, lo stesso non si può dire per una Varia troppo altalenante, concentrata a reprimere una passionalità che trova sfogo con incontrollata enfasi.
Benché recitato in lingua rumena, il testo riportato dalla compagnia del Teatro Nazionale Cluj-Napoca è vissuto e agito come qualcosa di incredibilmente tangibile e concreto. Ogni interprete assume sulle proprie spalle il proprio personaggio infondendogli una vita totalmente nuova, tanto umana quanto reale.
La vendita del giardino, per quanto dolorosa, solleva da ogni preoccupazione; la proprietà, più un peso gravoso e opprimente che un bene da salvaguardare, viene lasciata al nuovo proprietario. Ljuba e il fratello Gaiev (Ionuţ Caras) tornati bambini salutano la vecchia memoria mentre i ciliegi cadono dissolvendosi in petali sotto il peso dell’uomo nuovo che avanza.