«Sono stato sul monte Amiata / dov’è morto Gesù Cristo / anche lui era un socialisto / è morì per la libertà»
Questo il sigillo d’una vecchia canzone anarco-socialista, il cui incipit passò, correvano gli anni Sessanta, assai meno inosservato:
«Bruceremo le chiese e gli altari / bruceremo i palazzi e le regge / con le budella dell’ultimo prete / impiccheremo il papa e il re».
Erano le incisioni Ala Bianca, etichetta che contribuì a sdoganare la musica popolare italiana, di concerto agli studi etnoantropologici che stavano riscoprendo un patrimonio inestimabile. Assai probabile che Simone Cristicchi, artista eclettico e talentuoso, abbia respirato l’aria del Folk Studio di Testaccio, cuore pulsante del popolare italiano, ed è forse lì che ha conosciuto la figura di David Lazzaretti.
Il Cristo dell’Amiata non è, però, invenzione poetica di cantore anonimo, metafora popolaresca d’un Nazareno proto-rivoluzionario e figura di socialisti a venire: il riferimento, puntualissimo, è a un personaggio noto con quell’epiteto e ora misconosciuto, nato ad Arcidosso nel 1834. Mistico, visionario, capopopolo, fu protagonista d’un pezzo di storia (non solo) italiana, benché giaccia ora seppellito dalla polvere dell’oblio. Lui il secondo figlio di Dio evocato in uno spettacolo peculiare e rischioso, assolo encomiabile d’un performer capace di tener la scena, sia da attore sia da cantante.
Appare di spalle, con ruvide vesti da contadino ottocentesco, in uno spazio quasi metafisico. Canta, per poi scoprire, letteralmente, il grosso barroccio: scenografia mobile e cangiante, ora tribuna, ora altare, ora cattedra.
Narrazione e interpretazione: Cristicchi mescola scientemente recita in e fuori campo, slitta tra i caratteri, pure femminili, quasi come l’Alessandro Benvenuti di casa Gori. Il testo, scritto con Manfredi Rutelli, risulta però indaginoso da maneggiare: troppe dilatazioni, non sempre efficaci, compreso lo spiegotto centrale, quando è il “personaggio Cristicchi” a infranger la quarta parete per illustrare il senso della scelta d’un simile soggetto. Non è, questo, un errore in sé: ma se frattura ha da essere, che la funzione di questa sia anche espressiva, e non semplice “supporto” alla comprensione del messaggio.
Discorso analogo per l’impiego del microfono quale mero strumento d’amplificazione, e per quello delle canzoni a “supportare” la storia. Scelta azzardata, giacché non di rado s’avverte quasi una prossimità (involontaria) col musical piuttosto che col teatro canzone, ambito assai più consono all’artista: a nostro avviso, Cristicchi potrebber essere tra i pochi a poter percorrere questo genere non facile in modo originale e innovativo.
L’aspetto più controverso dell’allestimento è, però, un altro: al di là delle articolazioni drammaturgiche (molteplicità dei caratteri, compenetrazione recitativo-canto, inversione e sorpresa finale), si tratta pur sempre d’una narrazione encomiastica e, quindi, retorica, appiattita. Il merito di proporre una vicenda ignota ai più si stempera, così, nella rinuncia a problematizzare, nell’agiografia inerte. Successo e insuccesso di Lazzaretti sono eventi favolistici privi di profondità, il che finisce per non rendergli giustizia alcuna.
E ridicola ci pare la contrapposizione tra “potenti” stranieri, che apprezzavano il personaggio, e italiani, decisi a fermarlo: da che mondo è mondo, i “padroni” stanno dalla stessa parte, giacché, cantava De André, «non esistono poteri buoni». Il Lazzaretti di Cristicchi diventa, invece, una sorta di uomo cosmico-storico, una figura forte di cui s’invocano le gesta, e questo ci pare allarmante pure per l’estrazione d’un artista certo non “conservatore”.
Noi italiani, sempre lì caschiamo: nel bisogno di eroi, il paese anti-brechtiano per eccellenza.