Sbarca al Teatro Verdi di Pisa la nuova produzione di Il flauto magico con la regia di Lindsay Kemp, danzatore e coreografo di fama mondiale che da anni vive in Toscana. Il Teatro Goldoni di Livorno ha affidato all’artista inglese l’allestimento dell’ultima opera mozartiana che, a Lucca, concluderà la tournée (almeno per ora).
Dopo l’ouverture si sente un fortissimo tuono e si illumina una scena dipinta che mostra un palazzo con tre porte immerso nella natura: arriva Tamino, sfuggendo a un tirannosauro incredibilmente realistico, soprattutto nei movimenti. Già da qui si capisce la tendenza all’azione dipanata lungo l’asse orizzontale, ispirata anche dalla scenografia bidimensionale. Sembra quasi di trovarsi in uno di quei videogiochi tanto diffusi negli anni Ottanta. I personaggi sono caratterizzati dal costume (disegnato dallo stesso Kemp) e, soprattutto, da un colore dominante: un blu principesco per Tamino, il prevedibile verde Papageno, mentre Pamina tende al rosa confetto; nero per la Regina della Notte e le sue dame, bianchi i tre gaii paggetti (in bicicletta) che guidano l’eroe verso Sarastro e i suoi seguaci (tutti in arancione).
Dietro l’apparente semplicità della scenografia di Sergio Seghettini si nasconde un obiettivo ambizioso: la parete di fondo, le quinte e il cielo sono stati dipinti dagli allievi del liceo Cecioni di Livorno, approfittando dei progetti di alternanza scuola-lavoro; ulteriore testimonianza dell’impegno del Goldoni nel coltivare rapporti con la città e il territorio.
Il cast è composto da cantanti tutti corretti, in cui spicca solo William Hernandez (Papageno) per un’esuberanza trascinante che avevamo già notato quando fu protagonista in Il barbiere di Siviglia due stagioni or sono. Gli altri fanno quello che ci si aspetta, mediamente senza grandi errori, ma anche senza grandi performance.
Il flauto magico, gustosissimo Singspiel del 1791, è l’opera ultima di Mozart, quella in cui è più esplicita l’influenza massonica: il topos del rito di iniziazione, già visitato per Così fan tutte, qui è elevato a tema portante. Tamino dovrà dimostrarsi «fermo, paziente e riservato» per arrivare alla Verità ed essere ricompensato con l’amore di Pamina. Sono gli anni in cui inizia a formarsi lo stereotipo del maschio moderno, quell’immagine dell’uomo in cui l’autocontrollo è un valore al pari della forza e di cui Tamino è quasi un precursore.
La ricchezza di simboli – derivante dall’impronta massonica – e la commistione di stili e generi che Mozart mette in campo sembrano le condizioni perfette per Kemp, il cui lavoro è sempre sfuggito alle definizioni (danza, teatro, mimo) includendole tutte, ma non esaurendosi in nessuna. Invece, i movimenti dei cantanti non si discostano da quelli consueti nella lirica, salvo alcuni piccoli episodi coreografici non perfettamente eseguiti. La danza è appaltata a tre danzatori “finti afro” che saltellano qua e là e a un nugolo di bambini vestiti da scimmiette o uccellini che girano intorno ai personaggi. La poetica di Kemp e la sua visione di Zauberflöte rimangono inespressi, probabilmente vittime di alcuni fattori come le peculiarità attoriali dei cantanti (fisicamente poco flessibili, anche per esigenze esecutive) e la consuetudine diffusa – non solo nel melodramma – di limitare le prove per il regista. Seppure il risultato musicale e il processo di produzione siano encomiabili, il risultato, sul piano artistico, ha il sapore di un’occasione mancata.
Applausi calorosi dalla sala pisana, gremita fino all’ultimo posto per entrambe le recite.