Ormai un mese fa (abbiate pazienza, a volte siamo un po’ lenti) al Teatro dell’Olivo di Camaiore si è recata una divisione di giovani arlecchini, massimi esponenti di quella schiera di fanciulli che a vent’anni già si sente anziana, strano secolo il nostro.
Come un granello di sabbia racconta la vita di Giuseppe Gulotta, e la espone in una struttura narrativa lineare. Questa storia inverosimile inizia in anni che sentiamo ormai lontani, e che i più giovani tendono a ignorare: io stessa, pensando agli anni Settanta, mi figuro lussureggianti rockband anglo-americane, non certo il grigiore degli anni di piombo.
1976: ad Alcamo Marina (Sicilia occidentale) vengono uccisi due carabinieri. Gulotta, appena maggiorenne, viene portato in caserma e pestato fino a che non confessa, pur innocente, l’omicidio. Assieme a lui confessano altri tre ragazzi, di cui due minorenni. Gulotta passa gli anni successivi tra processi, carcere e arresti domiciliari: soltanto dopo il 2011, in seguito alla confessione di un carabiniere pentito, viene prosciolto dalle accuse.
Un solo attore (Salvatore Arena) e una scenografia essenziale: tutto, in questo spettacolo, comunica una semplicità quasi naturalistica. In scena appare il diciottenne pieno di vita, mentre in platea il vero Gulotta, quarant’anni più tardi, osserva sé stesso, una sorta di Amleto, che già conosce la vicenda.
Lo spettacolo inizia gioiosamente: il ragazzo, in motorino, urla in siciliano, la settimana è finita: si va al mare. L’atmosfera si incupisce: adesso è in caserma; lentamente, la vitalità muta in un’angosciante attesa, di cui non si comprende né il motivo né lo scopo. Il pestaggio è rappresentato in modo semplice, efficace: Gulotta, adesso, non è che carne da macello calata dal soffitto (struttura costruita in legno da Aldo Zucco), inconsapevole e incapace di agire, colpita ripetutamente (Arena è ora uno dei carabinieri). Nella luce, piccole schegge di legno paiono esplodere nella follia di una violenza irrazionale. La narrazione procede, e il giovane raggiunge la maturità sotto il peso di una colpa inflittagli da altri, incapace di lavare il proprio nome. Arena dà voce ai vari personaggi che tessono questa insondabile trama: gli amici, la moglie, avvocati, giudici… Sono diversi i momenti che ci colpiscono con la loro sincerità, nella descrizione di una vita che, pur segnata da colpe altrui e quasi distrutta, si ricostruisce poco per volta, combattendo per la propria libertà, ignorando il funzionamento di un sistema più grande, impalpabile, pesantissimo.
Le musiche di Luigi Polimeni non sembrano esattamente in linea con lo spettacolo: paiono appoggiarsi all’impostazione scenica senza adattarvisi completamente.
Il diciottenne spaurito diviene infine un uomo segnato dagli anni, con una famiglia e un figlio alla cui infanzia non ha potuto assistere, finalmente libero. Non c’è rabbia, nella rappresentazione di una tragedia che suscita ribrezzo: lo spettacolo non è affatto asettico, trasmette tanto la disperazione quanto la speranza, ma non scivola mai, e gliene siamo grati, nello spinoso territorio del giudizio morale.
Sia gli innocenti che i colpevoli, sembra suggerirci Massimo Barilla (regista e drammaturgo affiancato dallo stesso Arena), sono granelli di sabbia incastrati in un meccanismo più grande, incomprensibile per chi ne fa parte, e i colpevoli che conosciamo non sono che fantocci che operano automaticamente: la colpa si frammenta, diviene sopportabile, e non può che saltarci alla mente che qualcuno non poi troppo tempo fa parlava di una banalità del male che tendiamo ad allontanare da noi nel tempo e nello spazio.