L’avevamo lasciato ironico, strafottente, scientemente ducesco, mani ai fianchi, occhi strabuzzati. China perigliosa: saltare il solco dalla riva dei clown a quella degli aguzzini è un soffio, anche e soprattutto nel grande Gioco del Riso. Lo ritroviamo praticamente al governo: il consolato Di Maio/Salvini, il carneade Conte parafulmine fantozziano, vice in pectore a dispetto dei titoli.
Sul palco un letto, nulla più: Beppe Grillo, microfonato, entra, subito rievocando i tempi che furono da queste parti. Il quasi esordio alla Bussola, nel mitico e contestato concerto di De André (1975), l’ultima apparizione di Mina, tre anni dopo. Roba grossa, non l’attuale post fine impero, alla facciaccia del cambiamento. Settanta compiuti da poco: li si vede tutti, nel fumantino sguardo tra barba e riccioli canutissimi; recita (da) stanco, disincantato. Temp’addietro, le repliche non sarebbero state una sola, benché gremita; la svolta politica l’ha catapultato al centro del dibattito nazionale e non solo, ma di certo non ha aiutato la carriera.
L’incipit è trampolino al monologo: la condizione d’insonne come spunto d’analisi sul mondo. Grillo non dorme: legge, studia. A esser cattivi, o arlecchini, diremmo che i suoi autori ne condividono la vocazione nottambula: parla di rete, di block-chain, informando e deformando secondo stilemi collaudati. Assolo modulare: uno spettatore pesca a caso tra i suoi appunti e lui, da lì, riparte. Colpisce l’intonazione: lo rammentavamo fluviale, orgasmico, in costante amplesso col pubblico; più tenue adesso, nonostante zompetti tra le file, lasciando il palco, antro vuoto, regno vacante.
L’aria dimessa è opzione sceltissima quanto notevole: uno come lui certo non perde l’animale e questo ci ammalia. Potrebbe far scompisciare, non lo fa: titilla dubbi, solletica incertezze. Non senza ingenuità: scopre l’acqua calda su Kant “inventore della logica”, banalizzazione liceale.
Parla di morte (l’aneddoto su Dario Fo, assistito di persona: «Ho due tuoi quadri: varranno di più?», con la risata dell’amico, poco prima di spirare), della necessità di pensare un mondo nuovo, ove la robotica eliderà il moderno concetto di lavoro: saranno centrali cultura e istruzione (evitiamo di pensare a Di Maio e Salvini) per capire flussi, scenari, superare il cascame otto-novecentesco. Tutto vero? Chissà. Avvertiamo un che di semplicista, lo stesso che, da anni, lo porta a incensare le magnifiche sorti e progressive del digitale, senza immaginarne gli esiti drammatici e violenti della banalizzazione senza pensiero, vero tumore del nostro tempo.
Epperò Grillo è oratore provetto e, sin dagli esordi, la sua fu vis da capo-popolo umorista, efficace a prescinder dal contenuto: si pensi che, nel 2000, chiudeva un spettacolo distruggendo (non da solo) dei computer. Non gli imputiamo l’incoerenza, ma saper che il gioco reggerebbe comunque lede ineluttabilmente la veracità del discorso.
Accenna al reddito di cittadinanza: giusto sganciare sopravvivenza da lavoro, ma l’impressione è che s’immagini una socialità di mero consumo, coi cittadini ridotti a meri fruitori. Spettatori. Ci sta, ma siamo perplessi.
Si chiude: Insomnia è lavoro intrigante, più per ciò che smentisce (poco divertimento, varie fragilità) rispetto a quanto conferma. Ne traiamo qualche pensiero, qualche piena risata (il Fassino di: «Se vuole un partito, se lo faccia… vediamo quanti voti prende…»), un’impressione di passaggio: solo il futuro ci dirà se sia ristagno o sospensione per un rilancio. Vedendo quel che altrove si fa (pensiamo all’interessante Nanette di Hannah Gadsby), un’ipotesi ci frulla in mente, ma non si sa mai.