I nostri intrepidi arlecchini non temono di valicare i confini nazionali, pur di regalarvi qualche parola sul bel teatro:
Una nutrita falange si è recata addirittura in Svizzera (Lugano, Teatro Foce), per vedere Köszeg, performance ispirata alla Trilogia della città di K, di Ágota Kristóf.
La scena occupa l’intera sala: il pubblico è sperduto in una piccola città di cartone le cui abitazioni si accavallano sui gradoni della platea, o su un palco appena illuminato dalla luce fioca e tremolante di candele. Nella penombra si intravede un tavolo, su cui un telo di plastica.
Ledwina Costantini discende dalla scalinata della platea, e sale sul palco, dove smuove lentamente il telo, rivelando il corpo nudo di Daniele Bernardi. Tra i due si istituisce immediatamente un profondo legame affettivo, ora amorevole ora scontroso, nell’irrisolto e forse irrisolvibile conflitto che rimanda al nucleo destabilizzato di una famiglia.
K, una città priva di un vero nome, una guerra priva di volti, i cui soldati sono miniature con cui i due bambini possono giocare, nell’insensibilità che tentano di imporsi l’un l’altra.
Ci permettiamo adesso una brevissima parentesi su un particolare apprezzabilissimo, nella sua semplicità, che denota un’attenzione esemplare alle piccole cose, anche quando non siano di per sé eleganti (le celeberrime buone cose di pessimo gusto): le scarpe dei due attori recano la marca corrispondente alla succitata città!
La musica non è semplice sottofondo: nelle sue mille sfumature, riempie lo spazio al punto che, là dove pochi minuti prima risuonava un basso continuo accompagnato da elettronici suoni da discoteca, adesso si spande un’aria lirica (da Les pêcheurs de perles di Georges Bizet), senza che ciò intacchi la coerenza di una performance elegante e allucinante al tempo stesso.
La quarta parete non esiste, e ci si sente naturalmente immersi in una vita che, tuttavia, pare non sfiorarci consapevolmente: i due attori ignorano il pubblico, vi si accostano e lo travolgono senza vederlo, infuriano in una dimensione cui non apparteniamo, e che osserviamo affascinati, quasi imbarazzati dalla nostra fisicità per loro impercettibile.
L’opera è certo pensata per uno spazio privo di palcoscenico, in cui lo spettatore si muova liberamente, avvicinandosi (a suo rischio e pericolo) ai gemelli (i personaggi incarnati dai due interpreti), esplorando varie prospettive, tali da permettere un completo dinamismo dell’opera. Vero è che lo spazio utilizzato ha impedito, o quantomeno ridotto, tale proposito, permettendo a buona parte del pubblico di sedersi tra le casupole in platea.
Nonostante la relativa immobilità del pubblico, la scena non sfiora quasi mai la staticità, e i due risultano quasi sempre aggressivi nei loro movimenti, al punto che alcuni spettatori sono costretti a spostarsi d’improvviso, per evitare di rimanere travolti dalla violenza dell’azione. Volano a terra oggetti scenografici, in un caos che ricorda ora la guerra, ora l’assurdità della stessa esistenza: facilmente si perde il senso della narrazione, trasportati da gesti che assumono valore autonomo. I due paiono tendere alla pura autodistruzione, gettandosi violentemente l’uno sull’altro, in un’innocenza tipicamente infantile, che non pretende alcuna spiegazione razionale.
Nel finale si compie un ulteriore passo verso la liberazione dai confini teatrali: Daniele Bernardi, ormai solo, sparisce attraverso un’uscita di sicurezza, senza che vi siano applausi e, soprattutto, senza un’autentica conclusione. Il pubblico sosta qualche minuto, quasi imbarazzato, per poi arrendersi a defluire.