Una serie di musicisti, in formazione non convenzionalmente orchestrale, si dispongono sulla sinistra del palcoscenico, percorrendolo sino in fondo. È un improbabile amalgama dal peculiare meccanismo: ogni strumento funge da timbro sonoro individuale, quasi fosse una voce che, emergendo dal gruppo, sottolinea la propria singolarità. L’attore-giornalista Antonio Calandrino si trova a ridosso del pubblico, sulla destra: la posizione privilegiata cattura l’attenzione della platea, ed è affiancata da sequenze video proiettate fra la parte centrale della scena e il fondo. Sono sogni o concrete realtà? Proiezioni della mente o mere illustrazioni? Si tratta, più probabilmente, di immagini tridimensionali che sembrano fagocitare lo spettatore in un percorso illusionistico all’interno del quale ciascuno vede qualcosa di diverso.
Le parole corrono attraverso gli otto quadri dello spettacolo; evocano persone, luoghi, episodi, situazioni di una città vera quanto immaginata: Kansas City come Grosseto o Grosseto come Kansas City. Evocano, appunto: non descrivono ciò che Luciano Bianciardi ha amato, visto, vissuto, sicché ciascuno può costruirvi la propria proiezione del reale. Mai uno spettatore ha avuto, forse, ruolo più arduo: far parte dello spettacolo e, al contempo, esserne creatore, di pari passo con gli artisti che agiscono in scena.
Un lavoro originale e interessante incentrato sull’esperienza scenica intesa bilateralmente (nel rapporto attore-spettatore) come un canovaccio libero, questo è Kansas City di Claudio Riggio. L’idea è ispirata agli scritti e al vissuto di Luciano Bianciardi (scrittore di Maremma trapiantato a Milano negli anni Cinquanta, traduttore, intellettuale irregolare, autore di quel magnifico e disperato affresco esistenziale che è La vita agra del 1962, un dito nella piaga di un boom già letto nella sua effettiva dimensione disgregante), e a Grosseto, la sua città, ma senza vincoli e senza dimensione spazio-temporale. Insolita scelta che può solo giovare alla crescita di un pubblico consapevole.
La narrazione o, meglio, la non narrazione è totalizzante. Le voci degli strumenti − chitarra, sax tenore, sax contralto, flauto, clarinetto, trombone, arpa, basso tuba − talvolta impiegati in ensemble, riescono ad aprire un varco nel cuore e nei sentimenti dello spettatore come solo la musica riesce a fare. Così, i singoli suoni o i singoli timbri, talvolta distorti da una sperimentazione sonora cui ci stiamo quasi abituando, assieme alle proiezioni delle immagini oniriche che scandiscono i quadri e l’inarrestabile flusso di parole, creano un insieme eterogeneo di stimoli che finisce per avvolgere la sala. Il passaggio da una sequenza all’altra conferma l’impressione concreta di essere parte integrante di un percorso articolato, e non di effettuare una visione passiva e distratta, quanto, piuttosto, di partecipare a un’elaborazione estemporanea a tratti avvincente. La luce in sala ci riporta al reale, a scoprirci quasi dispiaciuti per qualcosa che si era pensato esistesse davvero, mentre chi ci stava accanto, forse, sarà stato preso da tutt’altra visione dell’esperienza condotta.