È un’immersione, fisica e poetica, il viaggio che la compagnia svizzera Opera retablO ricava da uno dei più lancinanti capolavori della letteratura europea degli ultimi trent’anni. Lo fa dosando verbalità e immagine, azione e parola, assumendosi in pieno la responsabilità creativa della traslazione formale, la sfida implicita del teatro nel dare ai concetti corpo, vita e spazio.
Uno spazio denso, quasi viscoso: per la portata simbolica (ogni singolo elemento della scena site specific ha una sua meditatissima valenza); per natura prossemica (lo spettatore non ha postazione stabilita, libero di muoversi all’interno d’un ambiente certo non confortevole); per impatto sensoriale (la penombra, come l’intenso profumo di cera delle candele accese sono sensazioni che segnano l’esperienza).
Siamo in uno luogo scuro, aiutati appena dal fioco tremolio delle fiammelle, attorniati da oggetti peculiari: ai lati, scatoloni come palazzi d’una città; al centro, un lungo tavolo di metallo. Il tutto è avvolto da una partitura rumoristica che acuisce la sensazione spaesata. Compare (anzi: c’era già) Ledwina Costantini in fogge da scolaretto. Attraversa lo spazio. Scopre il corpo nudo di Daniele Bernardi, disteso sul piano, come quello d’un obitorio. Lui si sveglia. Lei gli passa dei panni, in tutto analoghi a quelli che indossa.
Ecco i gemelli.
La trilogia della città di K. è testo irrinunciabile della nostra epoca; racconto laterale e allucinatorio d’una guerra o, meglio, dei suoi sopravviventi, fratelli calati nella più degradata e putrescente delle miserie, ove non c’è decenza né censura né senso. Ágota Kristóf, ungherese d’adozione elvetica, nel 1986 pubblica Le Grand Cahier, in francese, sua lingua d’adozione: è il primo tassello della trilogia riconosciuta come il suo capolavoro. Ed è su questo primo testo che si basa gran parte del lavoro di Costantini e Bernardi, che riescono in un’efficace traduzione, diremmo sinestetica, dell’opera sorgente.
La voce off porge brevi estratti da questa, e i due interpreti sostanziano scenicamente il racconto, svincolati, però, dal rispetto letterale del dettato: giocano, nel senso più profondo e teatrale, abitano la scena, vi spandono la terra adagiata su un lato, impugnano i soldatini per immaginarie, sanguinose battaglie, tracciano disegni sul grande quaderno poggiato sul tavolo. Crudeli e fragili, disperati e potentissimi, schifati dal mondo e dalla vita, si auto-impongono rigorosissimi esercizi di resistenza, tenendo fede al proposito di difendersi, fortificarsi, immunizzarsi. Non profferiscono una singola parola.
In queste scorribande, dense di simboli non sempre del tutto leggibili, Bernardi e Costantini sono i due ragazzi del libro, ma pure altro, altri. Quei guizzi, rabbiosi e dolcissimi, ingenui e cattivi, riflettono la violenza d’ogni giovinezza fagocitata dal dolore: potrebbero non essere i figli d’una guerra passata, bensì quelli delle nostre suburbie, dove brillano glitter e non mine, dove si sognano soldi facili, con tutte le minuscole volontà di minuscola potenza ispirate da una società slabbrata, allo sbaraglio. O potrebbero essere i figli d’un paese ricco, pure troppo, che paga, senza neppure darsene conto, il misurato e opulento benessere della sua borghesia, la sua apparente tranquillità, sacrificando tutti coloro, non pochi, che mal s’adattano alla norma.
Nel rispetto della struttura a specchio del libro, Köszeg si chiude senza il tempo dell’applauso, pacificato ritorno alla realtà, per sancire la fine della finzione.
Non hanno finto, quei due. Quella è realtà. Lo sentiamo bene, e non per un’amicizia che non avrebbe senso celare.
Ce ne fossero, di spettacoli così.
[Ecco l’altra recensione pubblicata sullo spettacolo, nel 2015]