Metti un giorno infrasettimanale, un po’ di freddo e la poltrona calda di un teatro diverrà il luogo perfetto per passare una piacevole serata, ancor di più se in scena va una leggera commedia brillante. Siamo a Pietrasanta con La cena dei cretini, famosa pièce di Francis Veber, resa nota da una fortunata trasposizione cinematografica del 1998 (in Italia nel 2000). In scena la compagnia romana formata dal duo Pistoia-Triestino, che avevamo avuto il piacere di recensire stagioni fa per Ben Hur: anche in quel caso tutto ruotava intorno al riso.
La trama, seppur banale, narra di una cena che, ogni mercoledì sera, viene organizzata tra alcuni amici, e dove ognuno è obbligato a invitare una persona poco accorta, con passioni strane: insomma, un ipotetico “cretino”. Peccato che, per la sera in questione, uno degli organizzatori sia rimasto bloccato con la schiena e costretto a rimandare il tanto agognato evento. Il caso vuole che proprio lo stoltarello di turno, dedito a realizzare modellini monumentali con il solo uso dei fiammiferi, si rechi comunque a fargli visita, dando vita, così, a una notevole concatenazione di eventi degni di pura ilarità.
La scenografia di Giulia Romolini presenta l’interno di un salotto lussoso, basato su tonalità calde come il rosso porpora del fondale, con copie, a grandezza monumentale, di Modigliani poste sui lati; queste verranno rimosse repentinamente, quando in scena giungerà un ispettore fiscale. L’opulenza della casa si manifesta con statue sia in marmo sia in bronzo e con un triclinio ubicato sul lato destro del palco; a sinistra, un tavolino circondato da pouff dai colori fluo arancio e verde, che stonano con lo sfarzoso arredamento.
Pistoia ha il ruolo del cretino Fraçois Pignon: rimarcare tale dote potrebbe risultare offensivo nei confronti dell’attore, ma tant’è. L’altro protagonista è Pierre Brochant, personaggio bloccato dal colpo della strega, e viene interpretato da Paolo Triestino: nonostante l’infortunio, si destreggia egregiamente sul palco. In generale, la coppia è ben composta, ognuno con il proprio personaggio segue il ritmo serrato che la commedia necessita. Si notano alcune sbavature, in certi casi poco giustificabili: tra tutti, la simulazione del “versare” il vino nei bicchieri e il conseguente ingerimento della bevuta con bottiglie serrate e liquidi inesistenti. Gesti tanto ricchi di finzione da far pensare a bambini intenti a emulare la vita dei grandi, e benché spesso in teatro si imiti la vita reale, tali passaggi rispecchiano un’artificiosità che non ci pare coerente rispetto all’intero assetto scenico. Altra pecca, l’utilizzo dei nomi originari della pièce francese che in italiano risultano sin troppo scimmiottati. È preferibile una traduzione completa dell’opera, anche nei nomi, perché di Charlotte tramutate in Charlò, le nostre orecchie ne hanno abbastanza.
La drammaturgia presenta, inoltre, qualche barzelletta inserita a forza per strappare un’ulteriore risata, come la freddura che scorge in uno scorfano, un pesce senza genitori. O, ancora, sfottò che vedono l’utilizzo di termini come “alpenliebe” per simulare una presunta cadenza tedesca o “Brunel de Montalsen” per indicare il celebre vino toscano. Si tende a voler far ridere il pubblico più del dovuto, non comprendendo che tali strizzatine d’occhio non sempre vengono apprezzate.
Pe rimanere in tema di cultura pop contemporanea, ci verrebbe da citare il rapprt Shade: Bene, ma non benissimo.