C’è tanto, forse pure troppo, nell’ultimo spettacolo di Claudio Longhi. Come in una matrioska, più livelli narrativi s’incastonano, lasciando lo spettatore sazio di una visione colma di citazioni e riferimenti di cui non percepisce la direzione.
In scena, i personaggi Elio Petri e Ugo Pirro (Nicola Bortolotti e Michele Dell’Utri), rispettivamente regista e sceneggiatore, alle prese con il progetto (idea, soggetto, allestimento e, infine, proiezione) della pellicola La classe operaia va in paradiso (1971), episodio capitale della cinematografia italiana e prova monstre per un attore del calibro di Gian Maria Volonté. Nella finzione scenica, la gestazione del progetto s’accavalla con le sequenze filmiche in modo serrato: chi non conoscesse la pellicola a stento riuscirebbe a distinguere trasposizioni e nuovi inserti.
All’interno di questa complessa situazione finzionale, s’inseriscono parallelismi tra mondo lavorativo attuale e quello del Novecento: la questione delle “pause fisiologiche”, il lavoro a cottimo, le numerose declinazioni dello sfruttamento che, al di là di tutto, parrebbe accomunare gli operai del secolo scorso ai monitoratissimi dipendenti delle multinazionali contemporanee. Le considerazioni sull’esiguità dei salario, l’assenza di stabilità sia occupazionale sia economica, sono, del resto, argomenti non ignoti ai lavoratori di oggi, precari, tirocinanti e prestatori d’opere occasionali.
È bravissimo Lino Guanciale nel doppio ruolo, ad alto coefficiente di rischio: il suo Volonté è istrionico, così come l’operaio Lulù, protagonista della pellicola: voce diversa per ogni declinazione, con repentini cambi di registro, di ritmo, per un’interpretazione impressionante per disinvoltura. Diana Manea ben ricalca, in gesti e modulazione della voce, una altrettanto indimenticabile Mariangela Melato: fin troppo, a volte; il confronto con la grande attrice è arduo, ma lei ci prova e, tutto sommato, il risultato è apprezzabile.
La scenografia di Guia Buzzi presenta un telo che si alza e si abbassa per le proiezioni, una serie di grandi riquadri mobili e, infine, la Machina, un impianto con due nastri trasportatori che riproduce in scena il meccanismo della catena di montaggio, sul quale, oltre agli scatoloni, passano operai e personaggi. Un’impalcatura su ruote sormonta i rulli: da quella posizione, i padroni sovrastano i propri dipendenti, impegnati col lavoro.
Il dialogo continuo tra passato e presente avviene anche grazie alle varie proiezioni che si susseguono rapide nel corso dei cambi scena: le voci e i volti di Pier Paolo Pasolini, Giorgio Gaber, Dario Fo si alternano a scene storiche di lotte operaie, sbarchi di migranti e richiami a pubblicità d’altri tempi (da Carosello, sottolineiamo Susanna Tuttapanna e Permaflex) in un pot-pourri forse eccessivamente giocato sulla carta del citazionismo.
E suona paradossale, proprio perché ci pare in aperto contrasto con il presente progetto longhiano, il monologo in cui Petri-Bortolotti critica le opere “troppo intellettuali”, rivendicando con orgoglio la propria origine “artigiana”, incline a voler realizzare pellicole in grado di parlare a tutti e che sappiano far discutere.
L’unico autentico elemento di dibattito per questo ambizioso, ma controverso, allestimento ci pare offerto da uno spettatore che, dopo uno degli intervalli musicali offerti dal bravo Simone Tangolo, alla sovrapposizione delle figure di Fanfani e Salvini, si alza e se ne va, affermando che non si può stravolgere così il senso del film.
Non si tratta, a nostro parere, di un vero tradimento: c’è più un’idea di voler creare un prodotto di alto spessore culturare, ricco di aneddoti, veramente sin troppi, che esulano totalmente da quell’intento primario e, se vogliamo, chiaro di Petri di raggiungere un pubblico qualsiasi.