Ci aveva già provato Pasolini, nella faticata Divina mimesis cui lavorò per anni, a incastonare il maggior poema della nostra letteratura nella contemporaneità: idea più che lecita, ché se capolavoro attualistico (si consideri il termine nei suoi limiti nietzschiani) si dà nel nostro repertorio, la magnifica “resa dei conti” dantesca vanta senz’altro un primato indiscusso. E, lungi dal florilegio di sguerguenze di celebri letture pop il cui difetto non è certo la diffusione quanto l’inerziale ed entusiastico appiattimento, non neghiamo che l’idea di far trascorrere l’Alighieri alle nostre latitudini temporali ha un suo fascino.
Federico Tiezzi sceglie di cucire un peculiare reading poetico addosso al “suo” attore feticcio, Sandro Lombardi, proprio a partire dalla Comedia, quale cartina tornasole applicabile all’articolato nugolo di eventi che è e fu il Novecento. Il dettato trecentesco è messo in dialettica col genere più attuale possibile, il giornalismo, appaiando celebri passi del poema a momenti in qualche modo cruciali del secolo breve (per Hobsbawm; a noi, che ne abbiam vissuto un quarto, sembra tuttora smisurato).
L’operazione è rischiosa: non in termini di apprezzamento, e il plauso del mansueto, mediocolto pubblico del Bargello ce lo conferma. Il periglio è, piuttosto, l’effettiva emersione di un’urgenza che ci parrebbe costituire elemento irrinunciabile per un’opera d’arte, specie se teatrale. In tal senso, il lavoro di rimbalzi e rispecchiamenti, contrappunto di letture, musiche e canzoni, ordito dal regista toscano assieme a Fabrizio Sinisi ci sembra prestare il fianco a varie perplessità, benché non sia facile distillarne per intero le cause.
Il Novecento è secolo finalmente conchiuso e a funger da sigillo son state quelle torri spezzate nel cuore pulsante della sua capitale simbolica, la città che sembra appartenere a tutti, non soltanto all’unica superpotenza sopravvivente in quel momento. Sin qui, Tiezzi e Sinisi han ragioni da vendere e la scelta di far coagulare o, meglio, reagire, in dissonanza e attrito, idiomi distanti (la viscosa lingua del Dante internale con gli scritti di Matteo Durante, Fernanda Pivano, Oriana Fallaci, Enzo Siciliano, Renzo Guold) ha piena cittadinanza scenica, specie se accompagnata da un’interessante partitura musicale come quella dei tre strumentisti coinvolti (Omar Cecchi alle percussioni, Luka Bošković e Dušan Mamula a suddividersi vari fiati; in locandina figura pure Francesco Torrigiani come consulente).
Quel che, invece, sembra difettare a questo Inferno è il guizzo ulteriore che intercorre tra una buona idea in nuce e un bel lavoro de facto, lo slittamento dell’arte nella sua accezione del saper fare, da concetto a realizzazione concreta. Non basta qualche intuizione, pur discutibile, d’un navigato animale da palco quale David Riondino, o il trattenimento sin troppo ieratico d’un Lombardi versione dicitore. Non basta mescolare con malizia alto e basso (la morte di Lady Diana e l’esecuzione di Saddam, Andy Warhol e Giulio Andreotti) per sfuggir la dimensione della trovata, anzi. Sono, questi, elementi certo buoni per strappar battimani convinti quanto ritualistici, ma insufficienti a sottrarre un lavoro alle insidie d’un teatro specchiato e inerziale, di cui si fatica a sentire l’autentica necessità. Si resta come interdetti, e non solo dinanzi alla percezione di quanto poco sia l’attuale giornalismo (esiste ancora?) dinanzi a quello citato dal ping pong tra i due attori, ma perché la sensazione, quasi fisica, è di una buona occasione sprecata. E, dati gli elementi a disposizione, ci pare un peccato.