Sarebbe occasione fin troppo ghiotta, ben protetti da una maschera ch’è anche scudo, lanciarsi in perfide scorribande in punta di calamo e servir fiele a quanti, in uscita dal Teatro Manzoni di Pistoia, non hanno potuto sottrarsi al dovere di prodursi in tautologiche approvazioni tipo «Shakespeare è sempre Shakespeare…», «Cecchi è sempre Cecchi…» o fiori consimili. E, morso da una fame malfidente di far sgambetti ai grandi per gustarne il piatto succulento di cadute − giammai provocate, semmai assistite − un Arlecchino potrebbe esser tentato di approntarsi un fiero pasto con cui saziare siffatti languori in modo memorabile. Ma Arlecchino, servitore benché affamato come uno Zanni, è chi scrive: d’uopo, perciò, che si appresti a provvedere agli appetiti di chi vuol sapere cosa si sia dispiegato ai sensi degli spettatori di La dodicesima notte per la regia di Carlo Cecchi.
Se l’Illiria cantata nel dramma dal Bardo dell’Avon è una terra indefinita, quella di Cecchi è tanto rarefatta da poter essere tratteggiata dai soli colori armonici dei musicisti in quinta, ma a vista tanto da apprezzarne l’esecuzione dal vivo, condotta in ossequio alle partiture di un Nicola Piovani in vena di citazioni che rimandano alle birichinate di Fiorenzo Carpi per il celebre Pinocchio di Comencini. Quella musicale è, dunque, l’unica scenografia di rilievo, in un’essenzialità sinestetica che, se voluta, confliggerebbe con il ricorso a costumi dalle fogge incerte fra il filologico e il fiabesco, punteggiate di dettagli preziosi e curati, dalle tonalità forti che accendono cromatismi di contrasto fra un personaggio e l’altro.
Sul grande piano girevole (lo stesso che ricordiamo nei Sei personaggi in cerca d’autore dello stesso Cecchi visto undici anni fa), fra un cambio a vista d’oggetti di scena e l’altro, ruota e s’avviluppa su se stessa la doppia vicenda d’amori beffati e rimescolati fin nelle corrispondenze di genere, trama di matrice plautina, fino allo scioglimento finale che vede il supponente maggiordomo Cecchi – pardon! Malvolio – beffato e dileggiato dai servi e dal destino.
Già, i servi! Fra loro spicca, per pasta vocale e credibilità corporea, Daniela Piperno, in una sanguigna e lombardeggiante Maria, cameriera personale della Contessa Olivia, una Barbara Gronchi che offre, di concerto all’innamorato respinto Duca Orsino (Remo Stella), un eccellente saggio recitativo da terzo anno d’Accademia. Ma è tutta la performance della nutrita compagine a profondere, in una sala quasi piena, afrori recitativi settecenteschi che, come i coevi profumi, servivano a mascherare i miasmi ammorbanti derivanti da sporadiche abluzioni nella realtà.
Intenerisce, dunque, la prova di Dario Iubatti, il fool Feste che, incerto fra una strizzata d’occhio alla maschera di Totò e alla melancolia di Amleto, emerge per onestà anche quando si barcamena maldestramente tra un accordo e l’altro a cercar le note giuste delle canzoni shakespeariane a lui affidate. Note giuste e non corrette, fuori partitura, ora crescenti ora calanti, ma sporcate di salvifiche pulsazioni umane che vivificano la patinatura del concerto. Sa anche, questo interprete del corruttore di parole shakespeariano, andare a braccetto coi musici di professione, intervallando il canto con interventi solistici al clarinetto. A lui, personaggio e attore , va un po’ di calore nell’applauso finale, risarciti delle offese uditive di ottoni a pistone che appesantiscono l’agile traduzione di Patrizia Cavalli.