S’inizia in perfetto orario al Teatro Regio di Torino per la penultima recita della donizettiana Lucia di Lammermoor (libretto di Salvatore Cammarano, tratto dal romanzo di Walter Scott The bride of Lammermoor), con l’innovativa regia di Damiano Michieletto e allestimento di Opernhaus Zürich, una novità per il pubblico italiano. La vicenda è ambientata in Scozia, nel giardino di un castello (almeno così dovrebbe essere), ma sulla scena veniamo sorpresi da una sorta di paesaggio post industriale o post bellico in assoluto degrado. Un imponente edificio di vetro si staglia inclinato e ci lascia intravedere gli interni senza arredi, tutto illuminato dalla freddezza dei neon. I personaggi (alcuni con divise militari da SS e altri con abiti anni Quaranta) sin dalle prime battute creano un clima angoscioso mentre lo squallido paesaggio (che resta invariato durante l’opera) contribuisce a straniare lo spettatore tenendolo forse troppo lontano dalle passioni d’amore e di potere della vicenda.
Enrico (il baritono Simone Del Savio) scopre la storia d’amore tra Lucia (il soprano Elena Mosuc), sua sorella, ed Edgardo (Giorgio Berrugi, tenore), suo rivale politico, mentre avrebbe auspicato un matrimonio di convenienza con Lord Arturo (il tenore Francesco Marsiglia) per risollevare le sorti famigliari. Il desiderio di potere e la vendetta finiscono col prevaricare sulla storia d’amore, e la donna è assolutamente schiacciata e controllata, senza possibilità di scelta. Alla gotica e cadente fontana della Sirena (rappresentata con un solo secchio di latta) vi è la visione del fantasma di una fanciulla, in grazioso abito anni Cinquanta da passeggiata pomeridiana. Ella vorrebbe essere il simbolo della sconfitta e del presagio di morte per la protagonista, perchè presente sulla scena fino all’epilogo, ma girovaga serenamente stridendo con i biechi intenti dei personaggi. L’impeccabile esibizione canora degli interpreti (unico neo la voce sin troppo sottile di Arturo) è sottolineata dalla direzione orchestrale (in puro stile romantico) di Gianandrea Noseda e dagli imponenti cori. La follia di Lucia si manifesta con tutto il suo nefasto tormento in vocalizzi che imitano il timbro e l’armonia indefinita della glassarmonica (gioiello dell’organico orchestrale) voluto in luogo del consueto flauto, proprio come al San Carlo di Napoli nel 1835.
Peccato che la tragicità dell’epilogo, con l’uccisione dello sposo (senza l’eclatante traccia di sangue sull’abito bianco) e il suicidio ad effetto quasi cinematografico di Lucia che si lancia da una trave metallica tra i numerosi personaggi presenti sulla scena, non convinca. I personaggi sembrano andare ognuno per la propria strada in un muro di incomunicabilità e gli eventi non riescono a raggiungere l’apice dei sentimenti di cui dovrebbero essere naturale conseguenza. La trasposizione temporalmente indefinita di questo allestimento e gli accorgimenti registici hanno conferito un tocco di universalità al dramma, ma hanno anche creato una lucida determinazione dell’uomo, oscurando a tratti la musica e il bel canto dell’Ottocento. Una rielaborazione non proprio fedele che però il pubblico ha gradito con calorosi applausi.