Avevamo lasciato Franco Branciaroli in Versiliana, dove aveva proposto il suo Dipartita finale, tentativo tra il maldestro e l’arrogante, insieme con altri mostri sacri quali Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Massimo Popolizio. Arroganza, dote in sé apprezzabile, nella dichiarazione: «Dopo i nomi che ho citato sopra, ultimi reduci di un teatro grandissimo, io oggi non vedo niente». Bravo, sette più: magari, se ci si prendesse la briga di andarci, a teatro, e di notar le differenze strutturali tra anni Settanta e momento attuale, forse, non la si metterebbe tanto sul piano muscolare. Non è piagnisteo, il nostro, ma considerazione meditata.
Ritroviamo, quindi, Branciaroli in un Pirandello: primo per lui, e da attore e da regista. Enrico IV, testo esemplare, pure più d’altri titoli celebrati: nella vicenda dell’innominato protagonista finto pazzo (a metter in crisi il rapporto realtà-rappresentazione, rovesciando su sé stessa l’ipocrisia borghese di convenzioni, amori e tradimenti), l’autore girgentino consegna alla storia (e a Ruggero Ruggeri per cui scrisse la pièce) un capolavoro d’equilibri drammaturgici. Tentativo dichiarato dell’operazione branciaroliana: «rendere Pirandello meno noioso», enfatizzando il ruolo dei personaggi collaterali attorno al “sovrano”.
Solo in parte il tentativo va a buon fine: la sinistra, aggettante scena di cornici a linee sghembe, carrelli ronconiani, cavalli da giostra, accoglie dapprima le squittenti macchiette giunte a saggiar lo stato del folle. Caricata Melania Giglio, mossette da signora che mal accetta l’età, raisonneur d’eco gassmaniana il Belcredi di Giorgio Lanza, sedulo e vacuo il dottore (Antonio Zanoletti).
Recita briosa, quasi svagata, sino all’apparizione del protagonista: da lì, ritmi dilatati, raggelanti. Tutto previsto per il decollo nella seconda frazione, coagulo in cui s’innesca il grand’attore: in termini quantitativi, non ce n’è per nessuno. Il monologo con cui Enrico rivela la burla è approdo sulfureo, denso grumo echeggiante amletiche verità: Branciaroli sventaglia l’ampia gamma di piegature che, da sola, riempie la scena ora sgombra. Pulizia, spaziale, di breve durata: riecco la comitiva, l’ossessivo affollamento d’arredi inquietanti per l’ultima “tirata” di totale disgusto, prima dell’omicidio finale, col “guarito” nuovamente sprofondato, sua sponte, nella pazzia.
Un momento prima s’intravede, forse, una potenziale chiave definitiva del testo, più dello sguardo in platea a monologo in corso. Quando Belcredi invita il protagonista “ristabilito” a venir via, tornare nel “mondo reale”. Ci è sembrato di notare Branciaroli inserire una pausa e (forse) una domanda assenti nel dettato originale: «E andare dove?», come a negare ogni prospettiva concreta, migliore, progressiva dell’esistenza. In quel dettaglio, scorgeremmo l’intimo contatto tra testo pirandelliano e grande teatro, la percezione di dolore insanato e insanabile che è la vertigine, il disagio dell’essere. Dell’esserci. Ecco: svecchiare Pirandello potrebbe equivalere ad asciugarlo dai liturgici convenevoli da scena borghese, direzionandosi verso l’inesorabile, quel punto di fuga disperato in cui risiede un’ipotetica e carsica matrice dionisiaca. Pur nella discontinuità d’un allestimento comunque apprezzabile, Branciaroli ha quindi il merito di suggerire simile esito, ricalibrando il testo rispetto ai canoni convenzionali, il che merita senz’altro un plauso, al di là della pura e semplice (si fa per dire) prestazione attorica che, pure, gli riconosciamo.
(Rielaborazione della recensione pubblicata in prima istanza da La Gazzetta di Lucca il 25 gennaio 2015)