Auditorium Parco della Musica di Roma: luogo particolarmente suggestivo ed elegante, oltre che accogliente, progettato dal noto architetto Renzo Piano, destinato a eventi musicali, ma non solo. Lo spettacolo su cui ho il capriccio di discorrere ha fatto molto parlare di sé, si veda a tal proposito l’Arlecchino che, paladino d’una sbeffeggiante verità, si schiera contro la massa di spettatori plaudenti e adoranti. La merda: titolo provocatorio, eppure ci sarebbe da interrogarsi su quanto una brutta parola rappresenti una vera provocazione; avremo modo di approfondire questo punto. Auto-definitasi tragedia in tre tempi (Le Cosce, Il Cazzo, La Fama e un controtempo: L’Italia), scritta in occasione dei 150 anni dell’Unità nazionale (non cogliamo il nesso), la performance si configura come un lungo assolo di Silvia Gallerano, su un monologo scritto da Cristian Ceresoli.
Entriamo nella grande sala, luci accese, l’attrice già in scena, seduta su un alto sgabello ove resterà per tutta la rappresentazione. Nuda, mugola in un microfono. Le luci si abbassano, lo spettacolo ha inizio. Il corpo è solcato dai segni del tempo: seni e addome morbidi, anni fa l’attrice sfoggiava il ventre gravido, una fisicità, insomma, che vorrebbe negare l’ossessivo ideale di bellezza del personaggio protagonista, corpo che tuttavia non si esprime mai appieno, ma rimane rannicchiato sull’alto sedile, il che pare uno spreco di potenziale, a livello sia espressivo sia scenico.
Sesso, e difficoltà a confrontarvisi, incapacità di trovare un proprio posto nella società, il tutto espresso da una voce irritante, acuta, infantile, esitante così come quella di una bambina. L’aspetto infantile del personaggio è, in effetti, da subito lampante, anche nel modo assolutamente ingenuo di guardare al mondo, un’attitudine superficiale che rende la performance estremamente leggera. In un semplificato mondo maschilista e ingiusto, la femminilità del carattere a metà tra bambina e ragazza si manifesta in strenui tentativi d’affermazione; l’attrazione e repulsione per il sesso maschile rimane irrisolta, e la storia non trova una vera realizzazione finale, circostanza che, se di per sé non rappresenta un difetto, preclude tuttavia la comprensione del senso dell’operazione: quale l’urgenza alla base della stesura di questo testo? Se l’intento è la semplice provocazione, l’opera non pare possedere la forza necessaria per turbare il pubblico né attraverso i temi trattati né per mezzo del linguaggio: il nudo ha cessato di far scalpore da decenni, nemmeno i bambini si scandalizzano a sentir dire “merda” o “cazzo”, e speriamo siano pochi gli spettatori che arrossiscono imbarazzati o innervositi a sentir affermare di ingurgitare la prima e staccare a morsi il secondo.
La performance può essere divisa in sezioni, al termine delle quali le luci variano e l’attrice urla nel microfono, con un misto di rabbia e frustrazione, per un cambio di registro che colpisce lo spettatore e ne risveglia l’attenzione. Il finale consiste in un potente crescendo, nel senso musicale del termine: l’attrice urla, canta, e la voce amplificata rimbomba indistinta nella sala. Rock n roll suicide, ultima traccia di uno splendido album di David Bowie, accompagna i fin troppo sentiti applausi, a cui partecipo con un poco di risentimento, perché, considerato quanto ha fatto parlare di sé, non mi pare che questo lavoro regali particolari sconvolgimenti; perdonate, perciò, il poco coinvolgimento nello scrivere il presente, faticoso, articolo.