S’ha un bel dire che il teatro è, spesso, noioso, lento, rito riservato a soli adepti: lo sosteniamo pure noi su questi schermi, giacché non sempre ciò che suona immediato implica necessariamente qualità; così come non la esclude. Si vada a Buti, refrain che non vorremmo stemperato dall’iterazione, per toccar con mano come si possano abbinare grande arte e fruibilità, catturar lo spettatore e proporgli acute riletture, siano esse afferenti al contemporaneo o d’epoca elisabettiana.
Il teatro è sempre (o sempre dovrebbe essere) contemporaneo: le grandi opere (che in letteratura Italo Calvino definiva classici) non smettono d’esserci compagne, n’importe quoi il momento storico della comparsa. Vi sono testi nati ai nostri giorni morti e sepolti, e pièce a loro modo eterne. Tra queste, quelle del Bardo occupano una posizione speciale nella cultura d’Occidente e lo sa bene Dario Marconicni che, dopo il fruttuoso confronto coi Memory Plays pinteriani, torna a un lavoro d’una quindicina di anni fa: Minimacbeth, titolo lampante, efficace Bignami della tragedia scozzese a firma Andrea Taddei, autore e traduttore di gran vaglia, che rende all’osso la storia del noto traditore e della sua ispiratrice appositamente per l’esperto teatrante butese.
Si sale sul palco, all’interno d’un alto tendaggio ad avvolgere la scena sviluppata in lungo; due file di panche laterali accolgono i non più di quaranta spettatori. Stanziato al centro, un tavolone di legno ricoperto di fogliame ingiallito occupa gran parte dello spazio. Entra Marconcini, canuti e fluenti capelli posticci in capo; una maschera balinese color ocra ne cela in parte il sembiante: in un proemio, annuncia/denuncia il tema, citando la celebre metafora macbettiana dell’attore in scena, a ribadire, repetita juvant, che “la vita non significa niente“. Buio.
Si procede come in un incontro di boxe: brevi round secchi e acuminati snelliscono l’intreccio risaputo, chiaro anche per chi sia digiuno a proposito di Banquo, Duncan e compagnia. Macbeth ha, come gran parte delle tragedie consorelle, più livelli (si rasenta l’infinito) percettivi: la traccia essenziale è di lancinante precisione; l’intreccio, al contrario, è un corso d’acqua alimentato e suddiviso da infiniti rivoli che possono smarrire il fruitore occasionale. Separano le scene della presente reductio brevissimi intermezzi musicali, in cui Marconcini e Giovanna Daddi (bravissima come sempre, una Lady di terrena e terribile potenza mediterranea, da Sibilla cumana) mutano posizione, s’alternano e profondono in una partitura gestuale di scacchistico rigore. Per conto suo, lui rende un conte di Glamis (thane il titolo scozzese) fiaccato dal tempo, oltre che dal dubbio atroce: i calzoni di pelle marrone fasciano un fisico da quercia nodosa, dura come il modo in cui scolpisce la battuta d’un testo “ammodernato” eppur sinuoso, al punto che, in certi sintagmi, sembrerebbe redatto in versi.
Intrappolati nella stanza senza tempo della loro tragedia, hanno un bel da farsi, Macbeth e la sua Lady, promettersi potenza e sesso (che son l’identica cosa), furore e coraggio, sino a incorrer nell’immancabile, ma non “morale”, crollo conclusivo. Il bosco di Birnam si muoverà (notevoli le statuette di Riccardo Gargiulo) e un “non nato da donna” farà strame dell’imbelle usurpatore di corona. Tutto scritto e ben noto: eppure, al buio finale, il cuore è a mille e l’applauso, prolungato e scrosciante mentre gli attori salutano personalmente tutti i convenuti, sigla nel miglior modo il trionfo, per una volta, del teatro sullo spettacolo.
Spettacolo da proporre a tutti, a ogni età: e il fatto che possa fermare a Buti, dove è tornato in scena, le repliche è un piccolo delitto di cui qualcuno, prima o poi, dovrebbe rispondere.