Non sappiamo se l’etichetta di “teatro civile”, usata, abusata e talora mal digerita da chi se la vede applicata, sia la migliore per sintetizzare il lavoro autoriale di chi si occupa di episodi di un passato condiviso eppure sulla soglia del dimenticatoio, cercando di condensare in forma drammaturgica – frequentemente monologica, come nel caso di Italianesi – le “storie vere” (altra etichetta discutibile, giacché nessuna fonte può rilasciare la patente di verità a una storia) di persone comuni, vittime di tragedie dimenticate o eroi trascurati dalla storiografia ufficiale.
Non sappiamo neppure se tali operazioni, fondate ovviamente sulla sineddoche (la vicenda esemplare di un individuo che riassume quella di un gruppo più ampio), procurino alla collettività un beneficio maggiore di quello che concedono ai loro artefici.
Sicuramente, tra i tanti che si sono applicati in anni recenti al “genere”, Saverio La Ruina può essere considerato uno dei migliori, perché dotato di una sensibilità che gli permette di cogliere, all’interno della cornice storica e cronachistica, sfumature psicologiche assai ricche.
Gli Italianesi del titolo sono i numerosi civili e militari segregati nei campi di lavoro albanesi al termine della seconda Guerra Mondiale. Accusati di essere nemici politici del regime salito al potere dopo la fine del conflitto, rimasero incarcerati fino al 1989; ma anche una volta liberi di rientrare nel nostro Paese, continuarono a vivere una sorta di isolamento, marchiati da un ingiusto segno discriminatorio.
Tonino, interpretato con ineccepibile credibilità da La Ruina, è uno di questi. Composto, semplicemente elegante (pullover rosso su camicia bianca, pantaloni grigi dal taglio alquanto demodé), ha una sensibile inflessione dialettale, e dal suo racconto scopriamo che ha imparato l’italiano dal vecchio sarto del campo, d’origine calabrese e prigioniero come lui. Lo stesso che gli ha insegnato il mestiere, scegliendolo come suo successore prima d’essere epurato. Il suo aggrapparsi alla sedia (unico arredo scenografico) svela poi una lieve zoppìa, che intuiamo frutto del lavoro usurante. Oscilla anche la sua memoria, nel rammentare episodi della prigionia, dai più intimi (infatuazioni, vagheggiamenti, libertà negate) a quelli paradossali, per poi riportarsi sul presente “italiano”, con le sue amare disillusioni. In vero si tratta dell’unico movimento dello spettacolo, che non si fa ricordare per la dinamicità. Sommesso è il tono del protagonista: registro colloquiale, frequenti pause, gesti minimi e precisi come quelli di un abile sarto, per l’appunto; l’illuminazione tenue e lattiginosa e il delicato sottofondo pianistico immergono tutto in un’atmosfera notturna. Ma la familiarità che infine riesce a comunicare Tonino è merito della solida costruzione del personaggio, nel suo idioletto e negli atteggiamenti; non a caso Italianesi, uscito nel 2011 (si era nell’anno delle celebrazioni per l’Unità d’Italia), e riproposto con discreto successo di pubblico al Nuovo Teatro delle Commedie di Livorno, è valso a La Ruina il premio UBU come miglior attore.
La storia sottovoce di Saverio La Ruina
Sguardazzo/recensione di "Italianesi"
-
Cosa: Italianesi
Chi: Saverio La Ruina
Dove: Livorno, Nuovo Teatro delle Commedie
Quando: 20/02/2015
Per quanto: 70 minuti
VERDETTAZZO
Perché: Sì, oppure no
Se fosse... un liquore sarebbe... una vecchia bottiglia di Amaro del Capo
Locandina dello spettacolo
Titolo: Italianesi
di e con Saverio La Ruina
musiche originali Roberto Cherillo
disegno luci Dario De Luca
direzione tecnica Gaetano Bonofiglio
organizzazione Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
Esiste una tragedia inaudita, rimossa dai libri di storia, consumata fino a qualche giorno fa a pochi chilometri dalle nostre case. Alla fine della seconda guerra mondiale, migliaia di soldati e civili italiani rimangono intrappolati in Albania con l’avvento del regime dittatoriale, costretti a vivere in un clima di terrore e oggetto di periodiche e violente persecuzioni Con l’accusa di attività sovversiva ai danni del regime la maggior parte viene condannata e poi rimpatriata in Italia. Donne e bambini vengono trattenuti e internati in campi di prigionia per la sola colpa di essere mogli e figli di italiani. Vivono in alloggi circondati da filo spinato, controllati dalla polizia segreta del regime, sottoposti a interrogatori, appelli quotidiani, lavori forzati e torture. In quei campi di prigionia rimangono quarant’anni, dimenticati. Come il “nostro” che vi nasce nel 1951 e vive quarant’anni nel mito del padre e dell’Italia che raggiunge nel 1991 a seguito della caduta del regime. Riconosciuti come profughi dallo Stato italiano, arrivano nel Belpaese in 365, convinti di essere accolti come eroi, ma paradossalmente condannati ad essere italiani in Albania e albanesi in Italia. Ispirato a storie vere. Testo selezionato per il progetto Face à Face / Parole d’Italia per scene di Francia. La prima stesura del testo è giunta nella cinquina dei finalisti al Premio Riccione per il Teatro 2011. Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta radiofonica nell’ambito di Radio 3 in Festival il 13/04/12. Ho cominciato a ricordare che in questo posto dove non c’era mai nessuno mi sedevo a terra al tramonto e stavo. Ho cominciato a ricordare che guardavo in cielo e aspettavo. Aspettavo aspettavo fino a quando non passava un aeroplano. “Ma vai a sapere sta gente dove va?”, pensavo. Pensavo come può pensare un bambino che non aveva mai visto niente del mondo. “Vai a sapere che si prova a stare in cielo?”. Ho cominciato a ricordare che quando l’aeroplano era sparito dall’orizzonte, chiudevo gli occhi e l’aeroplano tornava un’altra volta indietro nella mente, stringevo gli occhi più forte e mo potevo vedere pure dentro all’aeroplano, che poi non sapendo com’era fatto me lo pensavo tale e quale a un postale, ma proprio tale e quale, con l’autista allo sterzo che fumava e la gente attorno a fare domande: - “Ma quando arriviamo?”. - “Oggi è un poco fuori orario, però, eh”. - “Non le potresti prendere più piano quelle curve per favore che mi toccano lo stomaco?”. Me lo pensavo proprio come quei postali con quelle signore anziane che danno sempre fastidio all’autista: - “Io dovrei scendere un poco poco prima della fermata, me lo faresti il piacere di farmi scendere proprio davanti alla Esso?”. Pensavo che dietro a sta signora anziana ci stavano seduti mamma e papà, che papà era finalmente tornato dall’Italia, era tornato in Albania ed era venuto a (pigliarci) prenderci. E approfittando di un momento che la signora anziana stava zitta, che finalmente quelle curve lo stomaco gliel’avevano toccato, ho fatto a papà: - “Papà, dove andiamo?”. - “Eh”, fa lui, “andiamo nel posto più bello del mondo”. - “E qual è sto posto più bello del mondo?”, facevo io. - “L’Italia”. - “E com’è st’Italia?”. - “Eh, è un posto bellissimo l’Italia”, faceva lui. Gli facevo tutte quelle domande ingenue che può fare un bambino che non aveva mai visto niente del mondo. - “E perché è un posto bellissimo?”. - “Ma perché in Italia ci sono le città più belle del mondo: Firenze, Roma, Venezia. Non c’è cosa più bella che essere italiani”. - “E perché non c’è cosa più bella che essere italiani?”, facevo io. - “Ma perché in Italia siamo tutti pittori, musicisti, cantanti”. Al punto che quando poi siamo tornati veramente in Italia, scendendo a Roma dal treno io m’aspettavo un’orchestra, con la gente che suonava ballava e cantava. E invece non suonava e ballava nessuno, e tantomeno cantava nessuno, anzi c’hanno tenuti bloccati cinque giorni alla stazione e zitti, e se reclamavamo ci guardavano pure storto e zitti lo stesso. - “Ma guarda st’albanesi…”, dicevano le guardie. - “Non c’è cosa più bella che essere italiani”, diceva papà. (dal testo)