Spesso ci si domanda con quali elementi far avvicinare il pubblico giovanile al teatro e le risposte, a domande tanto annose, sono varie. Viviamo un’epoca peculiare: scomparso un main-stream univoco e onnicomprensivo, prevale comunque la muscolarità del successo e dell’esposizione mediatica come principali vettori di circolazione; ciò penalizza le forme artistiche più fragili (non in termini di potenza espressiva, ma di capacità di rumore e applicabilità ai media), obbligate ad andar per tentativi la cui riuscita, in fatto di popolarità, è indipendente da quella estetica.
Questo il pensiero vedendo La tempesta del Teatro Del Carretto, formazione a un peculiare crocevia del proprio percorso: Ultimo Chisciotte (leggetene qui) corrispondeva all’addio di Maria Grazia Cipriani, fondatrice e regista; il nuovo lavoro sancisce il passaggio del testimone nelle mani di alcuni veterani del gruppo, Giacomo Vezzani, Fabio Pappacena ed Elsa Bossi, più altri (tecnici inclusi) a mantenere l’ossatura.
Il titolo, lo Shakespeare occidente della piaggia deserta di Prospero e Miranda, rispecchia bene la tradizione carrettiana, la predilezione per il classico: a spiazzare, piuttosto, è l’incipit scenico ricalcante quello d’un concerto rock. Pappacena, torso nudo, timbro poderoso, ben centrato, intona al microfono una canzone di solida tessitura melodica: occupa la sinistra dell’ampio spazio multiforme che, con indovinate varianti, ospiterà la vicenda.
È chiaro come l’interessantissimo Blake Eternallife Show 1.0, progetto musicale firmato Pappacena/Vezzani tradotto in scena nel 2015, sia il precedente necessario per comprendere questo nuovo corso, l’intenzione di coagulare sonorità contemporanee (tra Eddie Vedder e Depeche Mode) ad alti e altri riferimenti poetici, con spunti mai banali e spesso folgoranti. L’improvviso ingresso di Teodoro Giuliani rimette le cose in prospettiva teatrica: il cambio luci repentino rischiara al centro un sipario purpureo da cui sbuca la sua figura massiccia; voce stentorea, declamazione robusta, è il Prospero regnante usurpato fattosi mago per amor della figlia, una mercuriale Bossi che vedremo calarsi con grande e umoristica efficacia pure nei panni del vaporoso Ariel.
Vi risparmiamo la storia (dovreste saperla): come nel teatro classico, a un allestimento bastano tre interpreti, specie se abili come questi a slittar di carattere in carattere in un fluire anch’esso musicale e, se ai tempi di Graziano Gregori gli spettacoli del gruppo contavano su imponenti apparati scenografici (pensiamo a Iliade e Pinocchio), all’attuale minore disponibilità di mezzi corrisponde comunque un’immutata pulizia visuale. Nero, bianco e rosso, le tonalità dominanti: il buio che inghiotte tutto, il nitore scolpito di corpi e costumi, il vermiglio regale. La recita è un susseguirsi di scene improntate a un’inesauribile polifonia: c’è persino spazio per il riso, con Bossi protagonista d’una mirabile tirata in napoletano. Il tutto al servizio d’una storia che, come Bardo comanda, titilla, commuove, sorprende, diverte, nel continuo andirivieni di emozioni. La musica scandisce tempi e situazioni, ben dosata e mai soverchiante (l’equilibrio è tutto in questi casi), complice un’apprezzabile consapevolezza tecnologica e il calzante uso espressivo dell’amplificazione.
A colpirci è l’efficacia generale con cui è resa, restituita al pubblico, questa Tempesta, il cui cuore è sempre e comunque nello spirito d’un testo interrogato con cura e intelligenza da artisti mai tacciabili di futile personalismo (male atavico delle nostre scene, benché s’abbia timore a dirlo). Non è detto che questo lavoro s’iscriverà tra i grandi successi della compagnia, ma ciò dipende, ahinoi, poco o nulla dalla sua lampante qualità.
Di certo, glielo auguriamo.