Non chiedono applausi gli interpreti del Teatr Zar. Il pubblico viene lasciato nella desolazione di un paesaggio scenico distrutto, dove solo confuse tracce restano di quello che è stato, e un corpo inerte di donna giace tra le macerie. La compagnia polacca, dopo anni di studio (ebbene sì: per fortuna esistono paesi in cui il teatro può permettersi di investire in progetti di ricerca a lungo termine), decide di dar voce e corpo alle vittime armene del genocidio del 1915 attraverso il progetto Armine, sister, di cui lo spettacolo omonimo rappresenta il punto centrale. Oltre al lavoro performativo, un album musicale, mostre fotografiche, installazioni, concerti e conferenze, a interrogare il mondo contemporaneo sui temi del negazionismo e del dovere morale della testimonianza. Questioni che è lo stesso Jarosław Fret, regista della compagnia, a introdurre al pubblico nel lungo e accorato discorso che precede l’inizio della performance.
Questa, cui partecipano anche i maestri cantori iraniani, armeni e turchi che il gruppo ha incontrato lungo il suo percorso di ricerca, si svolge in uno spazio rettangolare, ritagliato mediante panneggi scuri all’interno del grande atrio della Stazione Leopolda. Il pubblico si accomoda su panche lignee che corrono lungo i due lati maggiori della stanza così ricavata, all’interno della quale sedici grosse colonne troneggiano maestose, ad evocare l’interno di una chiesa scoperchiata. I sedici performer/musicisti invadono progressivamente l’ambiente impregnandolo di corpo e voce, terra e carne, materialità e sofferenza, creando situazioni di forte impatto emotivo di fronte alle quali lo spettatore sembra esser chiamato ad assistere più che a guardare.
È impossibile vedere ogni cosa, poiché nello spazio così frammentato le colonne ostacolano lo sguardo e le azioni abdicano alla narrazione lineare in favore di un sistema di «poesie fisiche», così nella definizione di Fret, che avvengono simultaneamente. I brani vocali intonati dagli interpreti, canti liturgici della particolare tradizione monodica armena, sono talvolta accompagnati da un bordone d’organo o da isolati rimbombi di tamburi, e infondono dignità rituale alla scena; su di essi si inserisce l’articolato tessuto sonoro generato dalle azioni: bastoni che percuotono il pavimento, vesti strappate e gettate brutalmente sui corpi, un letto di ferro che cigola mentre viene trascinato da un lato all’altro, urla d’intesa tra i carnefici, donne che ripetutamente si martirizzano o subiscono la violenza altrui, tavoli e porte rovesciate con un tonfo dal peso degli interpreti.
La scenografia è in continua evoluzione: le colonne sono calate a terra, trasportate a braccio, issate nuovamente; poi, battute e scardinate, riversano sul pavimento fiumi di sabbia; infine, smembrate in pezzi più piccoli, si ergono nello spazio, sempre più desolato, come nude lapidi nel deserto, in un’immagine terribile ed efficacissima a ricordo delle migliaia di vittime delle deportazioni nelle aride zone dell’entroterra siriano.
Non spettacolo, ma vera e propria «azione/testimonianza», evento in fieri che invita lo spettatore non a compiere un atto voyeuristico, ma a farsi in prima persona responsabile del risveglio di una memoria collettiva ancora oggi largamente sopita. Un atto di impegno civile restituito con devozione e con raffinata arte scenica, a conferma della peculiare capacità di comunicare attraverso le immagini che è tratto distintivo della migliore tradizione teatrale dell’Europa orientale. E di Teatr Zar con essa.