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Latinimachine

Sguardazzo/recensione di "Amleto + Die Fortinbrasmaschine"

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Cosa: Amleto + Die Fortinbrasmaschine
Chi: Roberto Latini
Dove: Volterra (PI), Teatro Persio Flacco
Quando: 28/07/2016
Per quanto: 70 minuti

La penombra del Persio Flacco lenisce le pupille dal nitore estivo che corpi e armi della Fortezza volterrana vi hanno impresso: l’umor-mistica chiacchierata sui cittadini ideali di Massimiliano Civica è intercapedine per l’evento che più attendiamo, il ritorno di Roberto Latini, la nuova scrittura di scena ispirata a Shakespeare, Amleto in ispecie, pietra angolare da cui promana la creatura prediletta, la compagnia intitolata a Fortebraccio. Principe norvegese, puro, incorrotto: giunge a misfatto compiuto, l’irreparabile inciso nelle carni esangui. Il canone occidentale si misura da quasi sempre (il testo fu ignorato per un buon secolo, prima di ritrovar fortuna) sulla più celebre tragedia del Bardo, declinata e interrogata a mo’ di nume oracolare. Così fece Heiner Müller, sottoponendo il prence ad abrasiva filtrazione novecentesca, rovistando nel cuore del dramma a ricavarne un testo pentapartito, grumoso, come attraversato da ferri acuminatissimi e roventi.

Oggetto ideale per la pratica latiniana, quel piegar di testi e materie all’urgenza d’un discorso teatrale stratificato, vorticoso, poggiato sulle innumere eccellenze/eccedenze cui può e sa attingere: difficile indicare attori più potenti ed eclettici sulla piazza, per di più con la scorta d’un lavoro audiovisivo mai da meno. Occhi e orecchie divengono ostaggi della macchina evocata dal titolo, ma a Fortinbras, il segno + distorto in croce, elemento ritornante (l’elsa del brando impugnato o il disegno delle aste microfoniche). Metamorfica presenza, Latini forma e informa testo e spettacolo. Voce e corpo diventano teatro, più che abitarlo, il campionario di soluzioni rimodula con sapienza stilemi già impiegati, in un inesauribile nomadismo della forma: reiterazioni e crescendo verbali ai limiti del canto, slittamenti di genere e costumi,  l’androginìa ostentata d’un teatro inquieto, proteiforme. La parola s’installa nel suono: «Ich bin… Ich war», il tedesco non irreprensibile rimbomba nel virulento cortocircuito fonico e investe il mirabolante apparato visuale: un gigantesco cerchio luminoso, forse reminiscenza da certe illustrazioni di Fabrizio Clerici, appare e dispare gravando dall’alto, ora parallelo al suolo (sequenza sci-fi da abduzione aliena) ora a perpendicolo, aureolare.

fortebraccio_teatro_amleto_die_fortinbrasmaschine_2_fabio_lovinoIl fantasmagorico campionario della Machine è completo: dai rimandi esoterici (l’artista capovolto ricorda l’Appeso degli Arcani Maggiori) alle intellettualissime malizie pop (Latini-Marilyn e l’«Happy happy…» senza birthday mentre la gonna vaporosa sbuffa in alto), eppure qualcosa sembra sfuggire a noi, in platea, abbacinati da cotanto debordare. Sfugge Amleto, già ingoiato dal gorgo di Müeller, sfugge un quid nell’imponente meccanismo offertoci. Altrove, il teatro di Latini ci aveva toccati nell’intimo, ustionati per l’urgenza di cui pareva intridersi ogni sintagma: pensiamo all’Ubu re, al disarmante Noosfera museum ai Giganti della montagna, a Metamorfosi. Là dove i detrattori (sempre ne avranno, gli artisti geniali) scorgono autoreferenzialità, abbiamo intrasentito l’autentico, caparbio, disperato, spingersi oltre, uno sfidare sé stesso, il teatro come habitat, la vita come condanna. Spettatori hypocrites, abbiamo partecipato al suo dolore ineluttabile, cogliendone, forse, alcune tracce. Non qui non ora. Il dubbio assale, se, lungi da una marchiana psico-sociologia della recensione, sia il nostro sguardo a essersi smarrito, incapace di seguire l’avvilupparsi delle spire di Latini, o sia l’artista medesimo a rischiar la trappola mortale della maniera.

Fastidio e frustrazione, a fine spettacolo, sono fisici, da non potersi tacere, amplificati nell’aspettativa, in un gioco paradossale: la delusione non deriva dalla disattesa rispetto a quanto sperato (tutto perfetto, pure troppo!), ma per la poca sorpresa, con l’aggravante d’una cripticità che ci è parsa palpabile involuzione rispetto ai precedenti lavori, pur costruiti in modo sempre complesso: non la “rottura della comunicazione” di Bene, per dirla con un riferimento ben presente a Latini.
Applausi, 
non unanimi, a fine recita: ma questo poco o nulla può dire, lo sappiamo, circa il valore di un’opera d’arte.

VERDETTAZZO

Perché: No
Se fosse... un invito per una cena prelibatissima sarebbe... come se il padrone di casa costringesse gli ospiti convenuti a guardare mentre, da solo, mangia con sommo gusto tutte le portate, dessert incluso

Locandina dello spettacolo



Titolo: Amleto + Die Fortinbrasmaschine

di e con Roberto Latini

musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai

drammaturgia Roberto LatiniBarbara Weigel
regia Roberto Latini

movimenti di scena Marco Mencacci
organizzazione Nicole Arbelli
foto Fabio Lovino

produzione Fortebraccio Teatro

in collaborazione con
L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
ATER Circuito Regionale Multidisciplinare – Teatro Comunale Laura Betti
Fondazione Orizzonti d’Arte

con il contributo di
MiBACT
Regione Emilia-Romagna


AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE  Roberto Latini Amleto + Die Fortinbrasmaschine è la riscrittura di una riscrittura. Alla fine degli anni ‘70 Heiner Müller componeva un testo che era liberamente ispirato all’Amleto di Shakespeare. Oggi, tentiamo una scrittura scenica liberamente ispirata a Die Hamletmaschine di Heiner Müller. Lo facciamo tornando a Shakespeare, ad Amleto, con gli occhi di Fortebraccio, con l’architettura di Müller, su un palcoscenico sospeso tra l’essere e il sembrare. Intitoliamo a Fortebraccio il nostro sguardo sul contemporaneo, la caccia all’inquietudine nel fondo profondo del nostro centro, per riscriverci, in un momento fondamentale del nostro percorso. Ci siamo permessi il lusso del confine e abbiamo prodotto da quel centro una deriva. Una derivazione, forse; alla quale riferirci nel tempo, o che probabilmente è il frutto maturo di un tempo che già da tempo è il nostro spazio. Di Heiner Müller conserviamo la struttura, la divisione per capitoli o ambienti e componiamo un meccanismo, un dispositivo scenico, una giostrina su cui far salire tragedia e commedia insieme. Die Hamletmaschine è modello e ispirazione: Album di Famiglia; L’Europa delle donne; Scherzo; Pest a Buda Battaglia per la Groenlandia; Nell’attesa selvaggia, Dentro la orribile armatura, Millenni. Ci accostiamo alla potenza della sua intenzione trattandolo come un classico del nostro tempo. La riflessione metateatrale e quindi culturale e quindi politica che ci ha sempre interessato, la capacità del teatro di rivolgersi a se stesso, alla sua funzione, alla sua natura, per potersi proporre in forme mutabili, mobili, è la voce dalla quale vorremmo parlare i nostri suoni. L’Amleto è una tragedia di orfani, protagonisti e antagonisti di un tempo in cui i padri vengono a mancare. Anche "Die Hamletmaschine”, ormai, da figlio è diventato padre. Questo ha a che fare con la nostra generazione, da Pasolini in poi, con la distanza che misura condizione e divenire, con il vuoto e la sua stessa sensazione. Siamo Fortebraccio, figlio, straniero, estraneo e sopravvissuto e arrivando in scena quando il resto è silenzio, domandiamo: “Where is this sight?” AMLETO UND DIE FORTINBRASMASCHINE Barbara Weigel Frequentare i personaggi della tragedia di Amleto necessariamente significa rifrequentarli. Sono i nostri mitici antenati, una sorta di miti-genoma della nostra cultura. Come tali, ogni volta che li rincontriamo, ci danno una nuova misura della distanza che intercorre tra loro e noi. Frequentarli significa anche dover rivalutare ogni volta di nuovo questa distanza, interrogarci ogni volta su dove stiamo e chi siamo diventati - come per capire l’evoluzione della nostra civiltà e, nello specifico, della nostra cultura teatrale. Heiner Müller, che ha chiamato il teatro “un istituto per la riparazione di classici in cattivo stato di marcia”, ha visto Hamlet e Ophelia come delle macchine-mito. Ri-frequentandoli prima di noi, tra l’Est e l’Ovest di una Germania fine anni ‘70, Müller ha nutrito la loro energia mitica con la storia della sua epoca: cortocircuitando storia e mito, ha rimesso in moto la macchina Amleto. Ha liberato i personaggi in un movimento poeticamente autonomo, li ha collocati oltre il testo di Shakespeare, in uno spazio visionario nel quale la loro tragedia poteva diventare ancora concreta e tangibilmente parte della nostra storia recente. Secondo Müller, questo tipo di operazione diventa necessaria fino al superamento della condizione umana dalla quale sorgono le tragedie di Shakespeare. Noi quindi ci inseriamo nella serie delle evocazioni, trovando un Hamlet oggi consapevole della sua vita di palcoscenico - vita intrisa delle nostre storie di teatro - e ci interroghiamo su chi è, se, con Müller, non è più Hamlet, e su chi poi sarà. Immaginiamo un Amleto che ha smesso di stare in riva al mare a parlare alle onde, con alle spalle le rovine d’Europa già percepite da Heiner Müller, mentre uno dei figli di Ecuba, Polidoro, vittima innocente anche lui di vendette nefaste, viene dal mare per approdare a quelle stesse coste. Ci poniamo le domande che si poneva già Heiner Müller: Che cos’è che ritorna? Quali sono i fantasmi che vengono dal futuro?
Ciò che è morto, non è morto nella storia. Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti - il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro. Heiner Müller, 1986*
*da Gesammelte Irrtümer 2, Verlag der Autoren, Frankfurt a. M., 1996, p.64, traduzione B. Weigel

Igor Vazzaz
Toscofriulano, rockstar egonauta e maestro di vita, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Scrive, suona, insegna, disimpara e, talvolta, pubblica libri o dischi. Il suo cane è pazzo.