La penombra del Persio Flacco lenisce le pupille dal nitore estivo che corpi e armi della Fortezza volterrana vi hanno impresso: l’umor-mistica chiacchierata sui cittadini ideali di Massimiliano Civica è intercapedine per l’evento che più attendiamo, il ritorno di Roberto Latini, la nuova scrittura di scena ispirata a Shakespeare, Amleto in ispecie, pietra angolare da cui promana la creatura prediletta, la compagnia intitolata a Fortebraccio. Principe norvegese, puro, incorrotto: giunge a misfatto compiuto, l’irreparabile inciso nelle carni esangui. Il canone occidentale si misura da quasi sempre (il testo fu ignorato per un buon secolo, prima di ritrovar fortuna) sulla più celebre tragedia del Bardo, declinata e interrogata a mo’ di nume oracolare. Così fece Heiner Müller, sottoponendo il prence ad abrasiva filtrazione novecentesca, rovistando nel cuore del dramma a ricavarne un testo pentapartito, grumoso, come attraversato da ferri acuminatissimi e roventi.
Oggetto ideale per la pratica latiniana, quel piegar di testi e materie all’urgenza d’un discorso teatrale stratificato, vorticoso, poggiato sulle innumere eccellenze/eccedenze cui può e sa attingere: difficile indicare attori più potenti ed eclettici sulla piazza, per di più con la scorta d’un lavoro audiovisivo mai da meno. Occhi e orecchie divengono ostaggi della macchina evocata dal titolo, ma a Fortinbras, il segno + distorto in croce, elemento ritornante (l’elsa del brando impugnato o il disegno delle aste microfoniche). Metamorfica presenza, Latini forma e informa testo e spettacolo. Voce e corpo diventano teatro, più che abitarlo, il campionario di soluzioni rimodula con sapienza stilemi già impiegati, in un inesauribile nomadismo della forma: reiterazioni e crescendo verbali ai limiti del canto, slittamenti di genere e costumi, l’androginìa ostentata d’un teatro inquieto, proteiforme. La parola s’installa nel suono: «Ich bin… Ich war», il tedesco non irreprensibile rimbomba nel virulento cortocircuito fonico e investe il mirabolante apparato visuale: un gigantesco cerchio luminoso, forse reminiscenza da certe illustrazioni di Fabrizio Clerici, appare e dispare gravando dall’alto, ora parallelo al suolo (sequenza sci-fi da abduzione aliena) ora a perpendicolo, aureolare.
Il fantasmagorico campionario della Machine è completo: dai rimandi esoterici (l’artista capovolto ricorda l’Appeso degli Arcani Maggiori) alle intellettualissime malizie pop (Latini-Marilyn e l’«Happy happy…» senza birthday mentre la gonna vaporosa sbuffa in alto), eppure qualcosa sembra sfuggire a noi, in platea, abbacinati da cotanto debordare. Sfugge Amleto, già ingoiato dal gorgo di Müeller, sfugge un quid nell’imponente meccanismo offertoci. Altrove, il teatro di Latini ci aveva toccati nell’intimo, ustionati per l’urgenza di cui pareva intridersi ogni sintagma: pensiamo all’Ubu re, al disarmante Noosfera museum ai Giganti della montagna, a Metamorfosi. Là dove i detrattori (sempre ne avranno, gli artisti geniali) scorgono autoreferenzialità, abbiamo intrasentito l’autentico, caparbio, disperato, spingersi oltre, uno sfidare sé stesso, il teatro come habitat, la vita come condanna. Spettatori hypocrites, abbiamo partecipato al suo dolore ineluttabile, cogliendone, forse, alcune tracce. Non qui non ora. Il dubbio assale, se, lungi da una marchiana psico-sociologia della recensione, sia il nostro sguardo a essersi smarrito, incapace di seguire l’avvilupparsi delle spire di Latini, o sia l’artista medesimo a rischiar la trappola mortale della maniera.
Fastidio e frustrazione, a fine spettacolo, sono fisici, da non potersi tacere, amplificati nell’aspettativa, in un gioco paradossale: la delusione non deriva dalla disattesa rispetto a quanto sperato (tutto perfetto, pure troppo!), ma per la poca sorpresa, con l’aggravante d’una cripticità che ci è parsa palpabile involuzione rispetto ai precedenti lavori, pur costruiti in modo sempre complesso: non la “rottura della comunicazione” di Bene, per dirla con un riferimento ben presente a Latini.
Applausi, non unanimi, a fine recita: ma questo poco o nulla può dire, lo sappiamo, circa il valore di un’opera d’arte.