Ieratico, perché solenne e perché legato a quel mondo antico e pieno di fascino che è la Grecia arcaica. È Iliade del Teatro del Carretto, in versione rinnovata rispetto alla prima del 1988 (unico attore presente ora come allora è Giovanni Balzaretti dall’elmo ondeggiante), spettacolo che si configura quale commistione di parola e azione scenica, in apparenza disgiunte.
Dei ventiquattro libri (dall’Alpha all’Omega) ne sono proposti quattordici con opportuni tagli, “letti” (la voce, fuoricampo, è registrata) nella traduzione di Vincenzo Monti, un testo particolarmente solenne, ma anche ermetico, in cui la voce non narra gli eventi per esplicarli, bensì si fonde a essi e, talvolta, assume significato solo in quanto espressione di una cadenza (l’operazione montiana è di particolare rilievo anche perché elaborazione del testo greco in endecasillabi sciolti italiani) che scioglie le parole dal loro reale significato.
Peculiare di questo allestimento è il rapporto uomo-macchina: gli attori (con l’eccezione di Elsa Bossi), incastrati in meravigliose armature accuratamente rifinite (le stesse di trenta anni fa), non sono che marionette mute (schiave degli dei? del Fato? della guerra e della disumanità che la caratterizza?), o fiere violente animate dalla sola volontà di uccidere. Rappresentativa, in questo senso, la scena in cui a scontrarsi con violenza ferina non sono Patroclo e Cebrione, bensì un leone e un toro.
È, tuttavia, necessario ricordare che la profusione di similitudini − anche esteticamente rilevanti − del testo omerico aveva, per lo più, la funzione di rendere comprensibile alla massa popolare la realtà bellica epico-eroica, alla quale l’ascoltatore non avrebbe avuto accesso: è insomma interessante accostare una concezione poetica propria della Grecia arcaica, legata alla composizione e alla fruizione orale (per cui gli epiteti, la struttura metrica ben definita e le ripetizioni sono “facilitazioni” per chi debba cantare e memorizzare centinaia di versi, così come per chi debba seguirne lo svolgimento) e alla divulgazione di valori eroici, all’interpretazione tutta moderna proposta dal Teatro Del Carretto, per cui le similitudini possono rappresentare un modo moraleggiante per descrivere le aberranti ferinità della guerra, e l’endecasillabo una cadenza mortifera.
Disumano il modo in cui Achille (Nicolò Belliti) fa scempio del cadavere di Ettore, scena ancor più violenta poiché, mentre il cadavere viene straziato, risuonano le parole pronunciate dal Teucro prima dello scontro fatale, promettendo all’avversario che, in caso di vittoria, si sarebbe impegnato a onorarne la salma, chiedendo al Pelide di fare lo stesso.
Ma a sottolineare in modo ancora più evidente l’attenzione sul tema della disumanità della guerra, concorre la transizione finale dall’epos alla tragedia (segmento assente nel 1988): conclusi gli scontri, avanza sulla scena Elsa Bossi, unica donna e unico personaggio che parla con la propria voce naturale, tunica bianca e mani in grembo: è Andromaca. Piange il marito defunto e il figlio in procinto di essere assassinato. Le parole, struggenti, sono da Le Troiane, tragedia euripidea: un passaggio dalla pura narrazione epica al vero e proprio teatro, incentrato non sulle gesta eroiche, sulla violenza virile, bensì sulla storia individuale e, in questo particolare caso, su una storia tutta femminile di straripante di emotività, tragica nella sua consapevolezza di una profonda brutalità irrisolta, quella bellica.