All’ingresso in sala, il sipario del Teatro del Giglio è già dischiuso su un ambiente caotico fatto di tavolini, pali, sedie, forme strane: parrebbe lo studio di un artista un po’ disordinato. Mentre il pubblico – composto principalmente da classi di scuola elementare – prende posto, suona una sveglia e, da sotto un lenzuolo, appare Tiziano Ferrari: si alza, si stira, si veste, fa colazione. Sistema la scena e intanto interagisce a gesti con le scolaresche che, con l’efficienza che le contraddistingue, si stanno sedendo.
Sul palco c’è un quadro pieno di interruttori, valvole e contatori: da lì Ferrari spegne le luci in sala e dà inizio alla magia di Piccolo Asmodeo. Il lenzuolo che celava l’attore viene appeso in mezzo alla scena e sarà quello il centro della narrazione. Strane formine mobili e oggetti improbabili diventano ombre proiettate sul telo per dar vita alla storia: il risultato sono dei personaggi in silhouette ricchi di particolari. I movimenti delle sagome, sebbene semplici e reiterati, sono curatissimi e riescono a caratterizzare personaggi profondi, a dispetto della loro immaterialità fatta di ombra. Le proiezioni sono realizzate quasi tutte davanti al lenzuolo: il trucco è a vista, ma la magia funziona lo stesso. Complici le musiche fortemente espressive di Michele Fedrigotti, si crea una narrazione intensamente emotiva che risucchia il pubblico (anche i più grandi) in un vortice emotivo da cui è difficile distaccarsi (per cinismo o distrazione).
La regia di Fabrizio Montecchi conta molto sullo straordinario e poliedrico talento del suo interprete. Tiziano Ferrari è abilissimo nell’alternare i momenti di pura narrazione (in cui lui stesso è al centro), a quelli in cui deve sparire per essere la mano invisibile di una storia che prende vita come per magia. Sfodera una gamma di voci impressionante non solo per la quantità, ma per la qualità: non suonano mai artificiose o macchiettistiche, e sono sempre un complemento credibile ai personaggi ben scolpiti. Insomma, sono sempre voci e mai vocine. Anche le ombre si muovono su due registri: da una parte sono figure realistiche e riconoscibili; dall’altra, creano movimenti quasi casuali e suggestivi, più che comunicativi. È il caso di una sagoma fatta di rami che, girando vorticosamente su sé stessa, proietta ombre lunghe e disordinate per evocare l’inferno.
Asmodeo è una creatura del “mondo di sotto“, ma è un diavoletto diverso dagli altri: sta sempre da solo a giocare con l’acqua e non gli piace ammirare i dannati. Il padre, irritato, lo manda nel “mondo di sopra” per metterlo alla prova: entro mezzanotte deve trovare qualcuno che gli venda l’anima. Inizia così la ricerca, ingenua e sorpresa, di Asmodeo tra gli uomini (e gli animali): la sua sagoma è bizzarra, vagamente antropomorfa con muso da coniglio. È una figura piccola e raccolta, simbolo della timidezza con cui si affaccia al mondo; tutto il contrario dei suoi arroganti genitori, ombre enormi e sfaccettate che non entrano mai interamente nel telo.
Il soggetto è tratto da Lilla Asmodeus dello svedese Ulf Stark, una favola tradotta per questo spettacolo e adattata da Nicola Lusuardi e Fabrizio Montecchi. Il finale dal sapore moralista è, soprattutto, una risoluzione funzionale a una storia che parla di diversità e della scoperta del mondo con gli occhi ingenui (ma non puri!) di un bambino un po’ particolare. Lo scorso anno si era notato, su questi schermi, come in Il cielo degli orsi Teatro Gioco Vita non avesse paura di parlare ai più piccoli del distacco e della morte. In questo caso, se i bambini non escono piangendo, sono invece entrati in contatto con temi coraggiosi come l’anima e il suo prezzo.