Ci vuole un certo coraggio per tradurre in scena la lingua leopardiana delle Operette morali, quell’italiano adamantino, prezioso, tornito, certo non prono all’imperativo categorico ora vigente quanto a immediatezza e comprensibilità. Son fuori tempo il Giacomo da Recanati, la sua prosa e la sua lucida, altezzosa disperazione, impossibili da tradurre nel tritacarne dei cinguettii, della condensazione a presa rapida, della citazione un tanto al chilo, morbi carsici dai quali neppure i festival meglio intenzionati ci paiono restar del tutto immuni.
Fuori tempo, come le figure minute di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, sgarrupate e circensi, ognuna col suo carrettino di legno a recar cianfrusaglie (o almanacchi) sulle morbidezze ampie d’una fisarmonica in sottofondo. «Operetta infelice e per questo morale» recitano i panni pendenti dai barrocci, tosto convertiti in palchetto di fondale azzurro dominato da una stella di cartone. Il testo leopardiano acquista vita e vigore nello squillo argentino della voce di lei, come arrotondato dagli echi sudisti della cadenza sicula: siamo al Copernico, riflessione cosmogonica che narra d’un Sole tutt’altro che francescano, intenzionato a mai più sorgere e riscaldare quei «quattro animaluzzi, che vivono in su un pugno di fango». Ossia noi, esseri umani illusi di dominare il cosmo, renitenti all’accettazione della nostra meschina e irriducibile inutilità.
La visione terrosa e materica, quasi pinocchiesca, d’un palco scarsamente illuminato si fa giostra di rovesci e rimandi: lui, clown col broncio, scientemente malsicuro, giacchetta da imbonitore, è il primo degli astri, lei, grintosa e soverchiante, è lesta a calarsi nei panni dell’astronomo polacco. Tutto si ribalta: «Operetta immorale e per questo felice» trascorrendo al dialogo di Galantuomo e Mondo, nell’acidissima “educazione all’esistenza” che il pianeta (Minasi, col fondale di cui sopra divenuto rotondo gonnellone) impartisce all’ingenuo intellettuale. Vademecum al vetriolo che non salva, anzi condanna, il pubblico astante: «Guardali», ordina Minasi, giocando di sponda tra dettato e realtà. E in vari momenti emerge la vertiginosa portata profetica della distopia leopardiana circa omologazione («tutti debbon essere come tante uova, in maniera che tu non possa distinguere questo da quello») e ipocrisia quali migliori monete a conquistar credito sociale. Tutto alla rovescia, tutto si rovescia in un ricupero del divertito-divertente razionalismo sadiano, non così distante dalla riflessione di Leopardi. Tutto rovesciato e in moto: De revolutionibus, appunto, titolazione in linea col livoroso sarcasmo delle operette scelte.
Il “solito Leopardi”, sentiamo commentare: come se davvero fosse condiviso, oggi, il lascito del nostro e, soprattutto, come se la scena non ci avesse detto e dato ben più di quel che serba l’inchiostro intrappolato in pagina. Qui sta la cifra d’un piccolo (capo)lavoro: l’operar di scarto e fantasia, applicando metafora, movimento e visione a ciò che, in effetti, già in lettura suona sufficiente, ma che sul palco trova nuovi fuochi e altra urgenza. Comici, spietati, guerrieri, Carullo e Minasi sono capaci di confrontarsi con testi tutt’altro che facili, incarnandone l’abbacinante plasticità (le repliche saranno preziose in tal senso) sino a trasfonderne il venefico pessimismo in un teatrino filosofico che sembra presagire certi esiti di Pirandello.
Applaudiamo, convinti, non consolati: Leopardi parla ancora a noi e, non lo escludiamo, di noi.