A poco più di un anno dalla morte di Ettore Scola, il Teatro Carlo Felice di Genova (in cui, poche settimane prima della scomparsa, il regista portò la sua Bohème) ne omaggia la memoria con la ripresa del suo primo cimento lirico: il Così fan tutte di Mozart e Da Ponte, allestito a Torino nel 2003.
Luciano Ricceri crea un’ambientazione decadente, con archi in parte abbattuti, elementi giustapposti e colori polverosi. Le scenografie combinano elementi dipinti e architettonici, con veli e piante che diventano leitmotiven di una ricorrente atmosfera di segreto, nascondimento, tradimento. L’opera simmetrica, nello stile e nell’idea: in due atti d’uguale durata le due coppie d’amanti si invertono. I fidanzati hanno scommesso sulla fedeltà delle amate e Don Alfonso li obbliga a sedurre l’uno la ragazza dell’altro. Tentazione insopprimibile (e giustificata) quella di riprendere questa geometria nelle scene e nei rapporti spaziali tra i cantanti, ma nei movimenti la suggestione è continuamente adottata e abbandonata, mai portata fino in fondo. La scelta registica, almeno in questa ripresa a cura di Marco Scola Di Mambro, è l’adozione superficiale di una tradizione paludata. Come a voler applicare una rassicurante prassi d’altri tempi, i personaggi si staccano dalla scenografia e cantano sempre in proscenio, guardando il pubblico anziché il loro interlocutore.
Con chi parlano? Credono davvero in quello che dicono? La verosimiglianza (seppur relativa, nel melodramma) si perde in un’impostazione concertistica in cui l’arte del cantante diventa solo sfoggio di bravura, non elemento della narrazione. Eppure Mozart “ha rotto l’Aria”, o almeno quella convenzione che voleva l’azione nel Recitativo e la sospensione del tempo nei numeri chiusi: per il compositore salisburghese, gli eventi entrano nelle arie, nei duetti, nei terzetti; il movimento, al pari dell’affetto, aderisce alla musica. Invece qui si ritrova una frammentarietà da opera metastasiana, in cui niente succede se non nel recitativo. Da quel poco che si trova in rete, è evidente che Ettore Scola aveva capito la forza dirompente della drammaturgia musicale di Mozart e Da Ponte: pur mantenendo superficialmente l’impostazione tradizionale nella dicotomia scena/proscenio, sapeva abbatterla finemente ed emergeva il carattere di Così fan tutte come opera di relazioni. Il nipote, invece, mantiene solo la facciata, quella che è più facile copiare, e i personaggi non interagiscono, soprattutto nel primo atto.
Bel cast sul palcoscenico, con la Dorabella di Raffaella Lupinacci che rischia di oscurare (per personale e intraprendenza vocale) la ben più quotata Ekaterina Bakanova, Fiordiligi corretta, ma che non regala grandi emozioni nelle arie col da capo. La coppia di fidanzati ricalca la prima: anche qui abbiamo un Michele Patti (baritono, Guglielmo) più istrionico e a suo agio del tenore Blagoj Nacoski (Ferrando). Voce ricca e avvolgente il primo, schietta e chiara il secondo. Completano il buon basso Daniele Antonangeli (Don Alfonso) e la Despina di Barbara Bargnesi che si fa ricordare con la caratterizzazione tutta nasale del Notaio Beccavivi. Alla guida dell’Orchestra del Carlo Felice troviamo Jonathan Webb per una direzione tradizionale e non sconvolgente, con alcune scelte agogiche poco felici, come il Terzetto Di scrivermi ogni giorno che, eseguito troppo velocemente, ha perso il suo carattere di quadro di tenerezza.
Non si è certo fatto un favore alla terza opera della trilogia italiana di Mozart, che passa spesso per la sorellastra di Le nozze di Figaro e Don Giovanni: molto più di questi capolavori, Così fan tutte avrebbe le carte in regola per farci uscire dal teatro diversi da come siamo entrati. Vanno solo sapute giocare.