Capita talvolta, quando assistiamo a spettacoli diretti o interpretati da grandi nomi, di restare delusi. Spesso si tratta di serate assolutamente dimenticabili, se non per la firma autorevole, per esempio, di un Ronconi o di un Koršunovas. È con questa triste consapevolezza che entriamo al Fabbricone di Prato per assistere a Le sorelle Macaluso di Emma Dante.
L’aria nel teatro strapieno è carica di attesa: forse anche il resto del pubblico condivide il nostro stesso timore. Quando cala il buio, in scena cresce, timidamente, una luce soffusa che non lascia intravedere il fondale. Appare una ballerina, Alessandra Fazzino, vestita con camicia e pantaloni neri, che comincia a volteggiare nel vuoto e nel silenzio. A un certo punto appare dall’oscurità la schiera degli altri attori, in un plotone corvino e preciso in cui, talvolta, alcuni componenti inciampano: emblema di una famiglia – i Macaluso – numerosa e unita, ma anche legata da rapporti malati e funestata dalla morte (quasi quanto i conterranei Malavoglia, per intenderci). Altri segmenti di grande potenza espressiva – su tutti la lotta con gli scudi – precedono il climax gioioso che coincide con il cambio d’abito: svestita l’anonima tenuta total black, le sette sorelle svelano degli sgargianti prendisole colorati e si dispongono in fila sul proscenio, una accanto all’altra rivolte verso il pubblico.
Proprio questa impostazione prossemica è un primo e importante richiamo alle origini: anche in mPalermu gli attori erano disposti in questo modo. A nostro parere, qui Emma Dante sta rielaborando quello che nel 2001 era un piccolo gioiello, e che oggi può sviluppare in una messinscena di più ampio respiro.
Sembra di leggere, in filigrana, una serie di citazioni che Dante inserisce per strizzare l’occhio allo spettatore più affezionato: la morte di Maria [in foto], con la bocca spalancata, è visivamente simile alla morte in piedi di Nonna Citta; Davide Celona riprende il suo predecessore Sabino Civilleri nella sequenza in cui gioca a pallone vestito da Maradona; la danza finale di Fazzino richiama quella, in quel caso corale, della scena Il miracolo dell’acqua in mPalermu: in entrambi i casi la nudità nel buio è rischiarata dall’alto con una luce calda, creando un intrigante effetto di chiaroscuro. Anche l’ambientazione è la stessa: in entrambi i casi è spoglia, senza scenografia, con lo spazio che cambia grazie all’uso ingegnoso dell’illuminazione. Ultimo collegamento, non secondario, la presenza in entrambi i cast di Italia Carroccio (nella primissima versione nel 2001 era Zia Lucia), attrice dantiana della prima ora.
Come un’equazione sempre uguale e sempre diversa, Dante affronta sempre i temi che le sono cari, ma, a differenza della matematica, qui cambiando l’ordine degli addendi il risultato è sempre nuovo e sorprendente. Con questo ritorno alle origini, la regista siciliana ci propone uno spettacolo essenziale, pulito, preciso, quasi chirurgico nello stabilire una relazione profonda con lo spettatore. Se la lingua – un siciliano stretto, ma allo stesso tempo inesistente (è la personalissima lingua di Emma Dante) – crea una distanza tra scena e pubblico, ci pensa il linguaggio a unire. Il livello di suggestione – quella che solo il teatro può creare con tale potenza – è altissimo, tanto che gli spettacoli della compagnia Sud Costa Occidentale hanno tanto successo in Italia quanto in Francia. Proprio nel cercare una relazione intima col suo spettatore il teatro ha la sua raison d’être, e sarà in grado di superare qualsiasi ostacolo di mancanza di spazi, di finanziamenti, di pubblico. Emma Dante ha da tempo vinto queste sfide e oggi ne ha superata un’altra: dimostrarsi all’altezza della sua firma.