Le note cadenzate e calde d’un contrabbasso scortano lo sguardo nella contemplazione di una scena surreale: un caotico trionfo di carta, pagine, libri sparsi sul pavimento. Al centro, un uomo, semicalvo, puntuto, gli occhi spiritati, il volto scavato. Sembra un soldatino di latta, improbabile marinaio camicia bianca e giacchetta azzurra. Attacca a sproloquiare con accento esotico, quasi slavo, senza fornire appigli a carpirne una sicura definizione etnica. Racconta del lavoro alla pressa compattatrice di libri buttati, trentacinque anni tra carta, topi e birra, in quell’antro surreale e sotterraneo che fa di lui un fool dai grotteschi echi inferici. Di tanto in tanto, un volume sfugge al macero, salvato da questo singolare Caronte letterario che se ne ciba intellettualmente con brama e voracità.
Lui è Hant’a, protagonista di Příliš hlučná samota, romanzo dall’impianto autobiografico di Bohumil Hrabal (nella foto qui sotto): pubblicato in patria (l’allora Cecoslovacchia) nel 1977, la traduzione italiana risale a dieci anni più tardi, titolo Una solitudine troppo rumorosa (Bompiani). Lo scrittore ceco, nel corso di un’esistenza alquanto rocambolesca, era anche stato, infatti, addetto all’imballaggio della carta da smaltire, durante il regime comunista: tale esperienza viene dragata in un volume dai toni grotteschi e affascinanti.
Amândio Pinheiro (questa la grafia corretta, ma le varianti si sprecano) traduce anzitutto fisicamente il carattere di Hant’a, facendone una specie di Woyzeck librario, umoristico e febbrile, un escluso dal consesso umano, cui partecipa con alterne fortune. Si racconta, ed è un profluvio di parole, quasi gli mancassero tempo in tasca e terra sotto le suole: si agita, solca la scena mostrando agli astanti (il monologo è rivolto al pubblico, con piglio imbonitorio) i pulsanti per l’innesco della macchina che compatta, esibendo con un certo affetto i molteplici aspetti della speciale mansione. Si estenua, anche fisicamente: il sudore trasuda visibile, umano. È una figura dolce, comica e sfuggente, abbevazzato naïf che sfoglia Nietzsche, cita Lao-Tze, scherza con Hegel, Cartesio e Kant in un caravanserraglio libresco tutt’altro che semplicista, via via punteggiato dagli interventi musicali di Eugenia Barone. La recitazione, talvolta, rischia l’avvitamento su se stessa, quasi depistando l’attenzione dello spettatore, pur ammaliato da tanto e contagioso afflato affabulatorio.
La vita scorre, al di fuori e al di sopra della stanza; il lavoro e l’accumulo letterario proseguono sino all’adeguamento tecnologico, la messa a punto di un macchinario che rende inutile la presenza dell’uomo nel controllo che il processo vada a buon fine. Hant’a si dispera, la riflessione si fa più acuta, sino alle conseguenze più estreme: in un mondo che non lo vede più come “utile”, il suo posto non c’è, alla stregua di quei monaci (egli stesso lo racconta) che si dettero la morte perché incapaci di sopportare la rivoluzione copernicana, con la terra (e quindi l’uomo) ridotta a mero dettaglio in un cosmo infinito e ormai indifferente.
Poco più di un’ora, comunque ben spesa, nell’afosa prima sala del Real Collegio.