Che cosa è un re svuotato del potere? Che cosa rimane di Re Lear (Silvia Pasello) una volta che ha abdicato, diviso il regno tra le figlie maggiori Goneril (Caterina Simonelli) e Regan (Silvia Tufano), e ripudiato la più piccola, Cordelia (Maria Bacci Pasello), l’unica animata da amore sincero verso il padre?
Queste domande accompagnano l’inizio della storia, il preludio allo scoppio di una crisi dei rapporti familiari: da un lato il conflitto generazionale padre-figlio, dall’altro l’alimentarsi di un odio fra sorelle o fratelli.
Riportata a un atto unico, la tragedia si consuma all’interno di uno spazio vivente, ritmato da una successione di sette sipari scorrevoli – fatti in tyvek, materiale molto simile alla carta – modulati diversamente a seconda dell’ambiente da rappresentare: dalle stanze del palazzo reale, alla campagna circostante. Le luci, che ora si fondono infrangendosi contro i sipari, ora invece tagliano lo spazio come lame, e le musiche originali di Ares Tavolazzi immergono la macchina scenica in una dimensione atavica e mitica, riportandoci all’universo da cui ha attinto ispirazione lo stesso Shakespeare.
Si concreta, inoltre, lo spazio mentale di Lear, alterato dalla follia, scosso da una tempesta interiore che cancella ogni traccia del vecchio sovrano, dal titolo regale alle terre disegnate su una carta geografica, ormai ridotta a una grande pagina bianca. Messo di fronte al vuoto di potere e di identità, spogliato di tutto, rimane l’essere umano nella sua originaria e fragile essenza.
La drammaturgia di Stefano Geraci, pur alleggerendo il testo originale, mantiene i nuclei narrativi fondamentali e moltiplica le possibilità drammaturgiche. I ruoli degli attori, infatti, si sdoppiano: sono loro a manovrare i teli, non in quanto personaggi, ma come servi di scena, contraddistinti da una maschera neutra che cela il volto. Animare e trasformare lo spazio, oltre che funzione pratica, significa farsi carico della storia, rappresentarla. Tale è il compito che si prefiggono le maschere sin dall’inizio, immedesimandosi nelle parti dei personaggi dell’antica leggenda britannica.
Calati i sipari a terra, crolla il castello di carta delle antiche certezze, lasciando una nuda foresta di corde in cui si compie una carneficina. L’immagine finale è impietosa: un campo di battaglia su cui giacciono i corpi esanimi dei personaggi semicoperti dai teli. Il fool (Michele Cipriani) richiude il primo sipario, rosso – Leitmotiv cromatico dello spettacolo – irrorato da un’intensa luce dello stesso colore. Tutto sembra imbrattato di sangue, nulla si è salvato: è la fine di tutto. I soli a rimanere sono i testimoni della vicenda, custodi della memoria, che risuona come un’eco lontana fra la Storia e il Mito.
(di Ginevra Mangano)