«Questa è una ballata, che racconta la storia di una dinastia in cui il potere si trasmette per via ereditaria», afferma Luca Ronconi, scomparso durante le repliche della sua ultima opera Lehman Trilogy, in una recente intervista.
Sopra un palco ricoperto di assi è scritto ossessivamente e con diversi caratteri il nome Lehman Brothers; vi vediamo scorrere per oltre cinque ore le vicende dei tre fratelli ebrei tedeschi immigrati in Alabama, Henry, Emanuel e Mayer, dei loro figli e dei loro nipoti.
La scena è una scatola chiusa, fatta di algide pareti bianche, botole che si aprono a far comparire sedie, lunghi tavoli, cartelli e pannelli su cui il celebre patronimico è sempre presente in 150 anni di storia raccontati dal drammaturgo Stefano Massini e messi in scena, per l’occasione, da Ronconi.
Nel primo dei due atti, a partire dal 1844, assistiamo alla lenta scalata dei tre: Henry, la mente, Emanuel, il braccio, e Mayer a mediare fra i due. Mentre i tempi del racconto sono scanditi da titoli in yiddish disegnati virtualmente dagli attori sulle pareti della scena, i tre personaggi (rispettivamente Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni e Massimo Popolizio) fanno rivivere a turno gli inizi del colosso Lehman: da piccolo negozio di tessuti a multinazionale di investimenti fino alla fondazione di una banca e all’immersione nel marasma dei titoli di borsa.
Il ritmo lento e meditato della prima parte, legata al tempo dei vecchi e della religione, si fa serrato nel secondo, protagonista un uomo che ha fatto della tecnica la propria fortuna: Philip Lehman, figlio di Emanuel, interpretato da un Paolo Pierobon spietato e calcolatore. L’yiddish si alterna all’inglese, il lavoro dei Lehman diventa sempre più astratto, impalpabile, e la corsa verso il crack finanziario del 2008 si fa sempre più veloce.
Non c’è coinvolgimento emotivo, né suspense, ma la messa in scena di un dilatato cammino verso la fine, dove i personaggi sono già morti ancor prima di agire. È tutto scritto e loro si comportano di conseguenza, con distacco e precisione chirurgica nella recitazione. Parlano in terza persona, concedendosi giusto rari stralci di dialogo, obbedendo a quella recitazione ronconiana ormai tanto familiare in allestimenti di questo genere. Non c’è naturalezza, ma biopsia del testo, analizzato parola per parola. Si percepisce a fior di pelle la scelta a tavolino delle pause, dei toni, dei gesti che accompagnano il dire. Emanuel, il braccio – eccezionale Fabrizio Gifuni – arricchisce la recitazione con movenze da pugile, molleggiandosi con rigore geometrico prima su un piede, poi sull’altro.
Si può parlare di uno spettacolo in requiem, dove la morte è palpabile: compare nel racconto dei riti funebri ebraici che, con la progressiva scomparsa dei singoli personaggi, vengono osservati sempre meno, per lasciar posto al profitto instabile della finanza, scandito dall’equilibrista Solomon Paprinskij – interpretato da un Fabrizio Falco ronconiano più che mai – a camminare in equilibrio su una sbarra orizzontale.
Un distacco brechtiano, dunque, per la volontà di non commuovere il pubblico né farlo partecipe di quella che risulta essere una narrazione epica, in cui i morti tornano per raccontare ancora, i vivi si perdono in sogni simili a presagi, il tempo scorre per tornare inesorabilmente alle 7 e 25 – l’orario dello sbarco di Henry in America, segnato sull’orologio in scena.