Non tutti i luoghi deputati alla performance vanno bene per qualsiasi allestimento. Spesso, si necessita di dovute modifiche o accorgimenti tecnici che permettano una più opportuna fruizione dello spettacolo. È, questo, il caso di Leonardo da Vinci. L’opera nascosta di Michele Santeramo, ingabbiato all’interno di un’immensa scatola nera, qual è quella del Teatro Studio Mila Pieralli.
La gradinata aperta al pubblico è distante diversi metri da un piccolo tavolino; dietro di esso, un lembo di stoffa anch’esso minuto, a far da pannello alle proiezioni dei disegni di Cristina Gardumi. Santeramo attore/autore è lì, seduto al suo tavolo, un po’ a leggere e un po’ a raccontare la sua storia: distante, troppo distante da chi è lì per ascoltarlo. L’impressione è che si tratti, proveremo a spiegarlo, di una performance che richiede un buon grado di intimità, un coinvolgimento emotivo che, nonostante l’uso calibratissimo della parola, non avviene, per lo più a causa del distacco prossemico, che separa più di un’ipotetica quarta parete.
Tutto nero: dalla veste del narratore al tavolo ove questi s’appoggia, dalla sedia che lo sorregge all’intera “scatola” che tutto contiene. Santeramo ci parla dell’immortalità e dell’esistenza, del trascorrere inesorabile del tempo e di come, giorno dopo giorno, agiamo: da un lato, per amore e, dall’altro, per sentirci vivi e non morire. Un racconto che ha tinte fantastiche, bambinesche, che portano il protagonista a fare un viaggio in un luogo ameno dove i suoi abitanti non muoiono mai, come i personaggi che vivono nei quadri, nell’arte. Un testo che è pura poesia, narrato e raccontato con una cantilena propria dell’autore che sembra condurre lo spettatore per mano, come un giovane fanciullo alla scoperta della vita, o attraverso un gioco museale dove lo si conduce nel mondo, tutto immaginario, di Leonardo Da Vinci, compreso il complesso, assurdo amore per Monna Lisa. Leonardo da Vinci, mentre osserva, probabilmente, il disegno della Battaglia di Anghiari si interroga sulla credibilità delle storie in contrapposizione alla veridicità di esse; alla stregua delle armi poste in mano, dal suo tratto, a quegli ipotetici guerrieri. L’artista e genio maledetto sembra la figura perfetta per tentare di penetrare a fondo il tema del passaggio tra la vita e la morte, tra il vero e il credibile.
È un’attenzione smisurata, quella di Santeramo per il proprio testo: si rimane colpiti proprio da questo suo accompagnarci nei meandri delle parole, delle atmosfere, che lui stesso ha concepito. Ogni frase è il risultato di una ricerca compositiva che ha alla base esercizi di stile intrisi di un pregevole gusto espressivo: «un momento» diviene, così, una delle rughe sul volto della Gioconda.
Tornano a far capolino tematiche nodali della poetica dell’artista, come il concetto di ozio, tanto difficile da portare avanti e che confluisce nella noia (ricordiamo, appunto, Il nullafacente, recensito la scorsa stagione). Chi non conoscesse lo stile dell’autore pugliese potrebbe forse stupirsi di uno spettacolo come questo, di un testo tanto commovente e splendido (ce ne aveva già parlato anche Igor Vazzaz qualche mese fa), narrato da quella che potrebbe risultare una persona qualsiasi. Non è un attore, non è un interprete: Santeramo è semplicemente l’autore e trascina lo spettatore attraverso la sua passione per la scrittura. Più che narrata, la vicenda è letta su quell’unica pagina bianca, rappresentata dai fogli sul tavolo.
C’era una volta il teatro di narrazione, dove sulla tanto beneamata sedia andavano a snodarsi storie e vicende per lo più attinenti a episodi di attualità; ancor prima c’era l’affabulatore che raccontava simpatiche fiabe e favole; con Santeramo si è aggiunto un tavolo alla seggiola e si legge da lì il proprio attaccamento alla scrittura.