È limpido il cielo sopra Vorno in un pomeriggio di quasi estate. Ci si raccoglie, manipolo di spettatori, a intraprendere l’erta, scollinando sul versante nord-est della Tenuta dello Scompiglio. Le ciliegie selvatiche colte qua e là addolciscono il cammino, sino a quando Leonardo Delogu (capelli rasati, occhi grandi e chiari, fisico da atleta, sorriso accogliente) si congeda per prepararsi, indicando lo spazio riservato al pubblico.
Eccoci, in mezzo al bosco, seduti. In attesa. La performance, pensiamo, è già iniziata: sin dal cammino, essa stessa cammino. Emerge un piano sonoro, una musica, cui si alternerà presto una voce: parla d’un tempo quasi fiabesco, di preghiera e di comunione tra uomo e bosco, tra uomo e natura. Di parole perdute, di memoria infranta.
Il contesto muta: di lì a poco, s’intravede l’arrivo, a una certa distanza, di un gruppo di ragazzi. Abiti casual, sembrano riuniti per un ordinario pic-nic: birre, musica, tra di loro una coppia, qualche risata. Ne udiamo vagamente le chiacchiere, tracce di parole indistinte. Spettatori non visti né previsti, scorgiamo quelle presenze umane, osservandone i gesti come fossimo alberi, sassi, sterpi, animali, insetti.
Un senso di alta, quasi ieratica, indifferenza informa il tutto: pensiamo a quanto incida, nel nostro guardare il mondo, il sentimento della coscienza e, con esso, l’esigenza, talvolta disperata, d’individuare, conferire un senso a quanto vediamo. Le interazioni tra i ragazzi si moltiplicano, senza mai risultare davvero leggibili ai fini d’una narrazione precisa: camminano, si allontanano, ricompaiono, si avvicendano.
Un’inquietudine larvale ha via via il sopravvento, come se qualcosa di terribile dovesse accadere. Accadrà. Dall’impianto audio (i diffusori sono nascosti) ecco una voce che, in inglese, parla di musica. Primi sospetti confermati: è David Lynch. Racconta la composizione (da parte di Angelo Badalamenti) di uno dei temi principali realizzati per Twin Peaks, non il più noto, bensì il crescendo più languido, la progressione armonica culminante con una tessitura acuta ed emotivamente intensa. La citazione è enfatizzata dalla comparsa di un corpo femminile in un sacco di plastica: impossibile non pensare a Laura Palmer, protagonista da morta e “motore” di tutta la vicenda alla base del capolavoro televisivo di venticinque anni fa.
C’è tempo per ulteriori immagini affastellate, “quadri” che, dall’immersione silvestre in cui ci troviamo, strizzano l’occhio a un immaginario d’impianto statunitense (un giocatore di foot-ball americano, le due ragazze in verde e blu una “doppio” dell’altra, Delogu stesso, nerovestito in abiti muliebri, che impugna un microfono e canta in falsetto su una base ritmata), sino al corpo nudo di Daria Menichetti, “oggetto” consegnato alla nostra vista, a mo’ di sacrificio. E, sulla sinistra, la casa eretta da Giovanni Marocco e Mael Veisse, pronta a colmarsi di candido fumo per il finale (in accordo col titolo) della performance.
Le vaghe idee sull’indifferenza del tutto ritornano, mentre si consumano gli applausi per un lavoro peculiare, di certo perturbante e articolato, non al riparo, però, da soluzioni a tratti manieristiche. Il dubbio è che la «relazione con il tempo profondo» alla base della ricerca di Delogu sia anch’essa espressione di una necessità umana, troppo umana e, dunque, sin dalla posizione stessa della domanda, la matrice di una separazione ineluttabile da ciò che ci ostiniamo a interrogare e chiamare natura.