Non si sprofonda mai in un solo tonfo nelle viscere dell’Inferno. Solitamente, nella tradizione letteraria e nell’immaginario collettivo occidentali, l’esperienza del viaggio dei viaggi è discesa lenta, gradino per gradino. Nel caso del Cuore di tenebra di Enrique Vargas [in basso a sinistra]si tratta, piuttosto, di penetrazione progressiva, fino alle radici del “male”, incuneandosi in tre anguste e buie scatole cinesi alla scoperta delle tenebre e delle malvagità dell’animo umano.
Il regista e antropologo colombiano attende i cinquantaquattro spettatori (non uno di più né di meno), come un Virgilio rassicurante, davanti a una porta del Ex Centro Fiere di Pistoia. Sollecita i presenti, invitandoli a raccontare dove si trovava il nascondiglio infantile di ognuno di loro, il rifugio prediletto e segreto. Se possa essere esattamente quel posto, la meta del viaggio che attende l’ignaro spettatore, non è dato sapere. Aleggia un’aura di mistero su ciò che accadrà: il pubblico varca la prima soglia, nella consapevolezza che gli spettacoli del Teatro de Los Sentidos sono esperienze immersive, sensoriali, che implicano un coinvolgimento attivo del pubblico.
Un’attrice ci introduce all’interno della prima “scatola” e, poi progressivamente, in cunicoli, stanze, sempre più buie e odorose, sino a una caverna dove lo spettatore sarà avvolto quasi nell’oscurità e, paradossalmente, non potrà più nascondersi, messo nelle condizioni di effettuare scelte, interagire intimamente con gli attori, costruire in autonomia un proprio percorso, fisico ed emotivo, personale; una traiettoria unica, autentica, all’interno di una drammaturgia costruita su provocazioni che gli attori-guide offrono freddamente agli spettatori-viaggiatori.
Come da sottotitolo “nessuno sa cosa sarebbe capace di fare, finché non lo fa”: prima si agisce, poi, alla fine del viaggio, si riflette attorno a un’esperienza limite come quella della schiavitù. Una parte dell’attuale Congo, possedimento personale di re Leopoldo II del Belgio, fu soggetto a uno sfruttamento così brutale da fare dieci milioni di vittime in 23 anni. Un genocidio dimenticato riportato alla luce e all’attenzione con questo Cuore di tenebra: più che rilettura del celebre romanzo di Conrad, lo spunto per affrontare le tematiche di un “teatro dell’oscurità”, sia visivamente che moralmente.
Se le tenebre ci avvolgono come reagire? Lo spettatore è costretto a prendere una posizione sulla perdita progressiva d’umanità nella vita dell’Inferno dei campi di lavoro. La serialità prende il sopravvento sull’individualità, i nomi diventano numeri; il senso di colpa della scelta di sopravvivere a discapito dei compagni, l’inquietudine, la paura e l’angoscia dell’oscurità s’insinuano nella mente a partire da un provocatorio gioco teatrale. Un’esperienza forte, un cospicuo dispiegamento di risorse (umane e tecniche) per la realizzazione di un kolossal coordinato da Patrizia Menichelli (artefice dei costumi), mentre Gabriella Salvaterra ha diretto gli attori e disegnato uno spazio teatrale complesso.
La meta del viaggio è, sì, il nascondiglio evocato da Vargas nella penombra dell’armadio o sotto il letto, ma non rappresenta più il posto dell’evasione e delle fantasticherie di bambini. Si gioca e ci si mette in gioco, per essere attori di un viaggio che non permetterà né la passività della poltrona di velluto né vie di fuga o evasione da una realtà spietata. Ci si sporcherà le mani e i piedi, nudi, di terra.