Francesco, con la specificazione d’Assisi a far la parte d’appendice superflua, è figura tanto centrale quanto sfuggente della nostra cultura, anche in chiave teatrale. Il giovane di famiglia benestante che lascia tutto per darsi alla predicazione, consegnandosi anima e corpo alla testimonianza evangelica, non è soltanto l’iniziatore di un’inedita e rivoluzionaria pratica monastica o l’autore di una delle prime e più intense prove poetiche in volgare, ma pure un modello performativo in grado di saldare la tradizione giullaresca europea (egli stesso si dichiarava joculatores Domini, “giullare di Dio”, come riportato nel celebre film di Rossellini, ed è un peccato che non abbia potuto usare il termine attore, all’epoca non utilizzato) a quella d’impronta sciamanica e orientale. L’agiografia ne racconta, infatti, i viaggi in Medioriente ed Egitto, al cospetto del nipote del Saladino, a trasfondere, «novellus pazzus in mundo», l’afflato mistico in una dimensione ludica, entusiasta, contagiosa.
La lettura delle note di regia, pratica pressoché inevitabile nell’approcciare prime assolute in serie come capita con I Teatri del Sacro, non fa, quindi, che rendere ancor più interessante la fruzione di senza volontà di cattura, francesco, così come lo scriviamo, minuscole incluse. Roberto Corradino, teatrante d’indubbio valore, sceglie d’accerchiare un personaggio semplice e, proprio per questo, difficilissimo, imprendibile, e lo fa senza volontà di cattura, appunto. Batte la via del contatto per analogia, quasi a “liberarsi” dai legacci stringenti della forma, disinteressandosi (e gliene siamo grati) del mai utile e spesso equivocato appiglio biografistico. Lo fa sulla scorta d’una compagnia picciola di giovani attori, intraprendendo un’insistita trama di slittamenti in senso formale, soluzioni che ci paiono comprensibili risultati di sperimentazioni laboratoriali.
La scena è spoglia (quasi una costante degli allestimenti visti sinora), con quattro ragazzi che danno vita a una discussione, tanto accesa quanto comica e pretestuosa, sulla figura del celebre assisano. I toni salgono, crescendo calibrato, per sciogliersi al suo arrivo, da fondo platea. Corradino avanza, macilento, volto scavato, quasi eduardiano, gli occhi di brace, vivissimi: entra in scena, tocca i compagni, come ad assegnar loro delle parti. Madonna Povertà, il padre, la madre, il fratello. Suddivisione che è pretesto di non stretta osservanza: l’azione si fa metaforica, sulle tracce imprendibili di Lui, figura (si usa il termine nella sua accezione allegorica) di Cristo, uomo che si fa Lettera evangelica.
Si gioca, ricuperando l’ambivalenza sottesa, in altre lingue, dal verbo recitare: si gioca (e quindi si dà spettacolo) ballando, cantando, parlando, talvolta con azioni puerili per poi passare a momenti di ostentata intensità. Lo spettro di soluzioni è ampio, dalla musica alla partitura fisica, ma non sempre convince: forse è questione di fluidità, di potenza, ma, talvolta, si rasenta il didascalismo. Vero è che la sala si emoziona, lo si avverte.
Si resta interdetti, ché la questione ci sembra attagliarsi al piano retorico: v’è un disvelamento del meccanismo teatrale, non diretto a uno smascheramento, quanto a perseguire una cifra di autenticità che ci pare davvero ambigua, perché rischia di ridursi al “calcolo” (sempre da evitare) circa la reale sincerità delle intenzioni dell’artefice. Ed è con questo dubbio che ci si strozza l’applauso tra le mani, mentre il pensiero torna a quel magnifico esempio di giullare che dev’esser stato Francesco e che, sì, pure a noi, come a Corradino, pare d’impossibile cattura.