La quarta edizione del festival I Teatri del Sacro ha inizio nello spazio di San Girolamo, accompagnata da qualche apprensione circa la possibilità di entrare: normale, per una rassegna a ingresso libero contraddistinta da un buon livello qualitativo.
Ad aprire virtualmente le danze, la prima nazionale di Chi sei tu? Vangelo dell’Asino Paziente, di Antonio Panzuto e Alessandro Tognon. Nel tipico tepore di un giugno già esitvo, il pubblico si dispone pacatamente, e, allo sfumare delle luci, il palco, sì come la platea, si ammanta di religioso silenzio. Nel tenebroso spazio scenico, scivola una figura della quale si intuiscono le pallide forme.
Panzuto è unico umano in un mondo di marionette, mano che muove i fili di lignei personaggi, ora ingenuamente innocenti ora di fattezze inquietanti. Opera incessantemente, divinità provvidenzialistica in una minuta realtà polimaterica; ma presto l’occhio dello spettatore cessa di cogliere i suoi movimenti, implicitamente accettata la convenzione della sua inesistenza scenica. Il palco, ora terra di Galilea, è disseminato di piccole abitazioni, personaggi pieni di fascino nella loro leggerezza infantile, scenografia dalla quale è difficile non essere catturati; grazie a essa si è introdotti in un mondo delicatissimo, innocentemente elegante.
La luce non fende le tenebre, bensì accarezza i piccoli protagonisti di una danza filiforme, li plasma facendoli emergere dall’ombra e donando loro una vita brevissima. Protagonista di questo mondo chiaroscurale, un asino di legno, metallo e stracci, povero nei materiali, elaborato nella minutezza dei pezzi che lo compongono: si muove lento in scena, trascinato per le briglie dall’amorevole burattinaio divino.
L’intera narrazione, raccontata da voci registrate e riflessa specularmente nell’azione scenica, non è che la storia dell’asino, asino che trasporta devotamente Gesù, accompagnandolo nei vari episodi biblici. La scelta di un vangelo a suo modo apocrifo, il cui autore coincide con un animale parlante, trasforma il testo sacro in una sorta di favola esopica, operazione interessante anche solo per la possibilità di accostare la morale cristiana alla forte impronta tipica delle fiabe. A rendere ancor più popolare, in senso folclorico, la narrazione è la scelta delle voci registrate: non quelle di attori professionistici, ma degli abitanti di Laurito, comune del salernitano. Sono spesso voci infantili, dalla marcata cadenza dialettale, forse in segno di continuità rispetto alla divulgazione della vicenda cristiana: sono infatti del popolo le voci che danno il titolo all’opera, e gridando interrogano il salvatore sulla sua effettiva identità.
Un testo così lineare, a suo modo infantile, favolistico, giustapposto a una scenografia elaborata ed elegante per quanto legata a una dimensione di fanciullesca innocenza, corre il rischio di risultare dissonante rispetto all’azione scenica e la considerazione è applicabile anche alla scelta delle musiche, che paiono legate alla semplice necessità di trasmettere emozioni dirette, senza che si riesca a coglierne una coerente continuità (lo spettacolo inizia sulle note di una malinconica versione pop di Knockin’ on heaven’s door cui seguono brani e canti di varie sonorità, riecheggianti un certo gusto per la world music). Si tratta senz’altro di uno spettacolo dal quale si resta affascinati, cui riconosciamo una delicatezza preziosa, intessuta in un quadro che presenta alcune venature disarmoniche, pur restando, nel complesso, piacevole.