Da dove nasce un’opera lirica? L’ouverture, dapprima sinfonia di richiamo per gli spettatori, nel tempo si è evoluta cercando di rispondere a questa domanda. Semiramide, il più famoso melodramma tragico di Gioachino Rossini, inizia quasi dal nulla: i timpani, impercettibilmente, danno il via a un ostinato di viole e violoncelli, su cui si innestano con naturalezza piccoli temi di grande vitalità. Qui risiede tutta l’essenza di questo lavoro: la tragedia è sempre lì, in agguato, ma il genio pesarese la riveste col suo stile gioioso e frizzante.
L’Opera di Firenze apre così la stagione, con l’allestimento firmato da Luca Ronconi nel 2011 e ripreso, per l’occasione, da Marina Bianchi e Marie Lambert. Un’inaugurazione che vuole essere un omaggio al regista scomparso quasi due anni fa e che molto ha dato al teatro fiorentino. Del Maestro si riconosce una certa tensione verso l’essenziale, che strappa la tragedia dal tipico ambiente fastoso per condurla in un luogo archetipico e desolato. La scenografia di Tiziano Santi si compone di pochi elementi, ora classicheggianti, ora simbolici: sul fondale una crepa enorme incombe sulla scena, a ricordarci che è solo questione di tempo prima che la tragedia si consumi. Le luci di AJ Weissbard sembrerebbero utili soltanto a illuminare: non a creare lo spazio o a disegnarne i chiaroscuri. La complessiva gestione tecnica dà origine, inoltre, a una lunga serie di piccoli e grandi imprevisti: l’occhio di bue che appare a caso sul proscenio, i cantanti parzialmente in ombra e alcuni cambi luce troppo repentini lasciano su tutto lo spettacolo una ferita che non passa inosservata nel pubblico fiorentino.
L’atmosfera grigia e spoglia del palcoscenico, oltre a far sembrare molto piccoli i personaggi in scena, crea un forte contrasto con il mondo evocato da Rossini. Per questo motivo, forse, il coro viene relegato nella buca orchestrale, come a voler separare rigidamente la creazione del regista da quella del compositore. È circondato da tutti i lati, dunque, Antony Walker: nonostante un preludio esemplare, il direttore australiano attira su di sé i fischi di mezzo teatro, probabilmente per una direzione leggermente lenta che lo costringe a strappi troppo repentini nei momenti più concitati.
Il ruolo principale è affidato a Jessica Pratt, soprano in grande ascesa che qui offre una Semiramide nobile, assai meno scollacciata di quanto Ronconi avrebbe desiderato (nell’allestimento originale il costume scopriva totalmente il seno posticcio, mentre qui lo lascia solo intravedere). La vocalità della cantante australiana è impressionante, non solo per la resistenza in un’opera di quattro ore affrontata senza nessun intoppo, ma soprattutto per la facilità nei sovracuti e per la delicatezza della mezzavoce. Incantevole il connubio con Silvia Tro Santafé, contralto che veste i panni maschili di Arsace, figlio ignaro di Semiramide, con cui rischia di consumarsi l’incesto. Se per il pubblico coevo di Rossini non era inusuale vedere un cantante en travesti, Ronconi calca la mano su quello che, oggi, sarebbe difficile da celare con naturalezza. I tacchi rossi e la lunga coda di capelli dell’interprete rendono sempre palese l’ambiguità dell’attrazione di Semiramide per Arsace: all’amore incestuoso si mescola quello lesbico e quello transgender.
Altra cifra prettamente ronconiana è l’uso di macchine sceniche imponenti: in questo caso tutta l’azione si svolge su una pedana che permette il fluttuare dei figuranti: corpi dimezzati, immobili, statuari. La stessa piattaforma, sul proscenio, presenta due appendici praticabili e motorizzate che spostano i cantanti, avvicinandoli o allontanandoli. Nonostante questo complesso impianto tecnico, i molti avvenimenti della tragedia (tra cui diversi interventi divini) sembrano accadere quasi per caso, in sordina, rischiando di rendere monotona un’opera molto lunga (quasi quattro ore con un solo intervallo). Applausi generosi dal pubblico che affolla la replica della domenica pomeriggio.