Con una durata di 50 minuti scarsi, Riccardo III di Michele Sinisi ha le stigmate del capolavoro. Il protagonista e il co-autore Francesco Asselta, intervistati a Milano pochi giorni or sono, lo indicano senza indugio come il proprio lavoro da far vedere a tutti: pur avendolo già recensito al debutto, andiamo volentieri al Teatro Francesco Di Bartolo di Buti per assistere alla replica ospitata dal festival Piccoli fuochi.
All’ingresso in sala, il pubblico – poco in quest’occasione – trova Sinisi che già s’aggira per la scena in tenuta da carpentiere (giacca da lavoro, berretto, cuffie anti-rumore). Da lì, proseguendo con un’incertezza à la Andrea Cosentino, cerca di declamare il monologo iniziale di Riccardo. «Now…», ma il microfono non funziona. Ci riprova diverse volte, finché non decide di scrivere sull’ampio tavolo di alluminio (sembrerebbe da macellaio) sul quale viene sezionato il testo di Shakespeare. Un po’ recita con rabbia (in un inglese che tradisce le origini pugliesi), un po’ traccia la superficie con pennarello indelebile rosso, un po’ mima. È un processo iracondo, uno scontro fisico tra lui e il testo che gli resiste.
La sala resta sempre illuminata: questo fa credere ad alcune anziane signore particolarmente loquaci che il commento ad alta voce sia autorizzato. In realtà, il pubblico è in luce in quanto oggetto della furia del performer: per cancellare i segni rossi sulla tavola utilizza dell’alcool etilico spruzzato copiosamente, in modo che raggiunga le narici degli spettatori («Troppo spirito», chioserà un’attempata spettatrice prima di abbandonare la platea). Non è che l’inizio: il tavolo viene ribaltato o scagliato sulle assi del palcoscenico, l’alcool nell’aria aumenta e si somma allo spray di una bomboletta da writer. C’è cattiveria, nel rivolgersi al pubblico così come nel calciare un pallone contro l’alluminio.
Lady Anne Nevill ha le fattezze di Marilyn Monroe e la piattezza estrema di uno stencil: viene presa a cinghiate da Michele Sinisi, a volto coperto, in una citazione di Bansky. Quando la ferocia arriva al culmine, si sente fortissimo un jingle pubblicitario: è il cellulare, passato in scena dal tecnico del suono che sta nel palchetto di barcaccia. «This is true, not false», urla l’attore indicando prima il cellulare, poi gli oggetti dietro di lui. Pur destrutturando, gioca con le regole più antiche del teatro, in cui un segno assume diverse valenze (come il pallone che diventa gobba) in virtù di una tacita convenzione tra scena e platea.
Il rosso è onnipresente: è il sangue di Riccardo o, se vogliamo, il tipico colore del velluto teatrale di sipario e poltroncine. Il pennarello e i graffiti sono vermigli, così come la lattina di Coca-Cola, lo spruzzino per l’alcool, il pallone e altri dettagli. Il colpo di scena, permesso dall’occasione, è nel finale: la porta in fondo al palcoscenico viene aperta (rottura di quale parete?) e, subito dietro, parcheggiata una macchina. Rossa.
Ad Antonio Rezza piace definirsi il miglior performer vivente fino a prova contraria.
Ecco, Michele Sinisi potrebbe essere un buon candidato per essere la prova contraria che il brutt’Antonio ci sfida tanto a cercare.