Una distesa di vetri, frantumati e scheggiati, insolito terreno per una foresta-cimitero popolata di tronchi brutalmente spezzati, inanimati. La scena disegnata da Maria Spazzi è una sintesi metaforica perfetta delle atmosfere che si respirano in una platea avvolta nel fumo, in empatia coi sei personaggi della Utoya raccontata da Edoardo Erba. Sulla pagina, questo testo già si configura verso il dramma borghese, Kammerspiel tetro e amaro da vecchio cinema tedesco o scandinavo, avvolto nelle nebbie dei cupi fiordi della contemporaneità. Serena Sinigallia, sulla scia di tali suggestioni, evoca una società incapace di guardarsi allo specchio senza ipocrisie, nella quale ogni speranza di un futuro è recisa brutalmente. Questa fu la Norvegia al 22 luglio 2011. Cosa accadde veramente nell’isola di Utoya quando un terrorista norvegese, simpatizzante d’estrema destra, trucidò settantasette giovani laburisti?
Il silenzio degli innocenti, le pagine d’inchiesta di Luca Mariani dalle quali nasce l’idea di trasporre tali vicende a teatro, insinuano nello spettatore dubbi che diventano tarli. Sanguinano ancora, in una drammaturgia pensata secondo il sano principio per il quale “osservando da lontano, si vede meglio”, le ferite di un’Europa profondamente xenofoba e violenta. Non ci troviamo sul luogo della strage, ma “al sicuro”, dentro i salotti borghesi di due famiglie norvegesi “per bene”: quella di una coppia benestante in perenne crisi e quella, contadina, dei vicini di casa del pluriomicida. In contrappunto agli sproloqui e ai vaniloqui domestici, i battibecchi da ufficio di una coppia di poliziotti in una stazione di provincia, nelle immediate vicinanze dell’isola. Le figure maschili, passive di fronte alle proprie responsabilità e impotenti di fronte a una realtà cruda, quelle femminili, volitive, rabbiose per una repressione costante subita nel tempo.
Sei personaggi, tre coppie che rappresentano significativamente un universo parallelo delle debolezze e delle meschinità che serpeggiano in questa società contemporanea, rappresentati da solo due attori: Arianna Scommegna e Mattia Fabris. Se la regia ben vira verso l’essenzialità, adottando in ogni aspetto il principio della sottrazione, ciò fa sì che due attori interpretino sei personaggi completamente diversi per una prova davvero notevole. E se, all’inizio, lo scollamento sembra macchinoso, col prosieguo della vicenda l’alternarsi delle coppie diventa sempre più fluido, credibile, efficace, e, soprattutto, sempre meno caricaturale. Il pensiero va a certe drammaturgie di Spregelburd (ricordando la versione ronconiana di La modestia, e pure Furia avicola, visto al fiorentino Florida un anno fa), ma con forse maggior solidità, una centratura che meno concede all’autocompiacimento dell’autore sudamericano.
Le storie parallele finiscono per convergere, sino a intrecciarsi fittamente, supportate da una buona colonna sonora e, soprattutto, dal gran ritmo dei due attori, che recitano in un italiano “settentrionale” che finisce per caratterizzare sempre più i personaggi, restituendo allo spettatore pathos, pensieri e riflessioni.
Ci troviamo veramente nei fiordi o nel nostro paese? L’isola degli orrori, che tristemente c’è, pare essere dietro l’angolo di casa.