Fabrizio Brandi si presenta senza enfasi: camicia aperta su canotta bianca, una sedia di legno, alla luce di un piazzato. Nient’altro. E, seduto, col suo accento livornese (non quello marcato da «Vernacoliere», ma un’inflessione più naturale, vera), prende a raccontare un’infanzia vissuta negli anni Ottanta tra i fabbricati del quartiere Fiorentina, quei “blocchi” costruiti in epoca fascista per dare un alloggio alle classi meno abbienti e alle famiglie rimaste senza casa a causa degli sventramenti; quei blocchi a pochi passi dalla Barriera Garibaldi, ovvero il varco lungo la sola strada che collegava la città con l’odiata Pisa, barriera marcata da un obelisco che in città si chiama Guglia; quei blocchi, ancora, che pare riproducano in pianta la scritta “DUCE” (vero e non vero: dall’alto alcune lettere si riconoscono, ma non allineate): massimo scorno per chi vi abita e vi ha abitato, poiché siamo nella Livorno operaia, quella autenticamente, addirittura proverbialmente, comunista.
Non a caso il racconto ha inizio rammemorando un episodio indimenticabile per il popolo della falce e del martello: la Festa dell’Unità organizzata nel 1982 a Tirrenia, uno dei raduni che caratterizzarono quella stagione politica e le sue estati; convegni immensi, e irripetibili, per organizzazione e partecipazione. È una sorta di iniziazione politica e umana per il protagonista e narratore Mario Nesi, accompagnato dal padre (in sella a un Motobecane mezzo scassato) a vedere il comizio di un altro “padre”, Enrico Berlinguer.
Ma la dominante “rossa” viene (per fortuna) abbandonata quasi subito, lasciando il posto a note cromatiche più “rosa”: infatuazioni adolescenziali, amicizie resistenti, imberbi tentativi di darsi un tono, di allenarsi a subire i primi bullismi dell’esistenza.
Francesco Niccolini, autore del testo, livornese non è; ma lavorando con Brandi ha disseminato le sue pagine (a proposito di pagine, Blocco 3 è stato appena pubblicato da Edizioni Erasmo) di luoghi comuni puramente labronici. Luoghi comuni, cioè modi di dire falsoveri, ma soprattutto posti tipici. Il racconto non può che passare allora dagli “scogli piatti”, uno dei tratti di falesia più frequentati dai labronici; dai Fossi, la rete di canali che un tempo perimetrava la città fortificata, facendone una piccola Venezia; e dagli affollatissimi quartieri nord di Corea e Shangai (senza seconda “acca”), che nel dopoguerra la resero una piccola metropoli all’orientale.
Poi ci sono quelle pennellate che sembrano inessenziali e, invece, danno la misura dell’attenzione con cui si è cercato di tratteggiare la livornesità: il consumo di Estathé, per esempio, che i giovani – non è pubblicità occulta! – imparano a bere prima dell’acqua; gli scooter (un tempo era il vespino ad avere il monopolio); e ovviamente il mare, che ogni livornese considera sia genitore sia figlio, e che non scambierebbe con ricchezze e opere d’arte.
Va da sé che, giocando in casa, il pubblico reagisca bene: la complicità del dialetto funziona, così come il meccanismo del “riconoscimento” («è vero; me lo ricordo; siamo proprio così», eccetera), innesco facile, ma sul quale la messinscena ha il pregio di non speculare.
Se è vero che, nella serata cui ho assistito, la performance di Brandi aveva qualcosa da farsi perdonare, è anche vero che lo spettacolo non è lontano dal suo meglio, dal suo punto d’arrivo: sessanta minuti o quasi di narrazione pura e semplice, e non per soli livornesi, appunto.