Quando uno spettacolo gira da tempo nei teatri, le cause possono essere più di una, in prima linea vi è senz’altro la forte fruibilità dell’offerta presentata. È il caso di L’infinito Giacomo, opera incentrata sulla vita di Giacomo Leopardi e interpretata da uno dei personaggi storici del teatro italiano, Giuseppe Pambieri. I presupposti per un prodotto dal grande esito ci sono tutti, peccato che qualcosa non ci abbia convinto.
Il sipario è già aperto e al centro del palcoscenico vi è un leggio; la luce è azzurra, soffusa. Non appena Pambieri entra in scena, in una mise total white, il tutto si irradia di giallo: l’attore principia il proprio show. Si tratta di un’ora e un quarto di pura lettura interpretata, dove vanno a mescersi i racconti della vita dello scrittore di Recanati con le proprie poesie. La distinzione non viene colta a livello attoriale, Pambieri passa dalla prosa alla poesia senza scarti evidenti, con l’eccezione di alcune celebri componimenti come Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta e A Silvia, caratterizzate da un maggiore trasporto nella voce. Il suono è caldo a ogni fraseggio, modulato al punto da realizzare picchi tonali nei momenti più rilevanti, per poi tornare ad abbassarsi in quelli più cupi.
Giuseppe Argirò, nella doppia veste di drammaturgo e regista (ci sembra abbia lavorato molto di più al primo ruolo) compone un testo che mette in luce un nuovo Giacomo Leopardi. Purtroppo, in ambito scolastico, l’autore marchigiano viene collegato al pessimismo cosmico con caratteristiche lugubri e catastrofiche; invece, Argirò propone un Giacomo (non viene mai nominato il cognome) desideroso di vivere, con un’estrema giovialità e goloso di dolci (paste con la crema o gelati).
Le più evidenti sbavature sono a livello visivo: la fissità dell’attore dovuta alla lettura è palesata sin da subito, mentre i cambi di luce (dai toni freddi ai cromatismi caldi) sono talmente repentini da risultare poco funzionali. È come se, per mezzo dell’illuminotecnica, si volesse disegnare attimi diversi nella vita di Leopardi: da un lato, la stesura dei componimenti poetici, dall’altro, l’influenza delle proprie radici sulla scrittura, mediante aneddoti familiari (l’odio dichiarato per la minestra, la ritrosia nel farsi un bagno). Lo stesso discorso può estendersi all’accompagnamento musicale, in cui brani del repertorio classico (Mozart, Beethoven e Bach) fanno da sottofondo alla declamazione dei versi, ora dello Zibaldone, ora delle Operette morali. Musica e luce non ci paiono soddisfare del tutto il progetto che ne è alla base, dando vita a un effetto che, spiegato in maniera forse brusca, ci parrebbe l’acceso/spento di un comune interruttore elettrico.
Piacevole, per contro, è la sensazione di ritorno ai banchi di scuola grazie ai fraseggi delle più celebri poesie, in un percorso che va da Contro la Minestra a L’infinito echeggiato dal titolo dell’esibizione. Se ne esce gradevolmente colpiti per una nuova immagine del poeta “pessimista”, ma, al contempo, in parte perplessi per una regia che non è riuscita a calibrare armonicamente l’energia nel suo complesso, ora in luce ora in musica.